Continua il confronto sulla nuova versione del Padre nostro. Dopo gli articoli di monsignor Nicola Bux e di dom Giulio Meiattini, oggi ospitiamo l’intervento di don Silvio Barbaglia, docente di Esegesi biblica nel Seminario “San Gaudenzio” di Novara.
Il nodo problematico, afferma il professor Barbaglia, non sta tanto nella forma verbale (non ci indurre / non abbandonarci) quanto nel sostantivo (tentazione / prova).
A.M.V.
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1 – Il problema
Il recente dibattito, riaperto dalla decisione presa dalla Conferenza Episcopale Italiana di mutare la traduzione del Padrenostro all’interno della stessa Celebrazione eucaristica, è stato tutto concentrato sulla vera e politicamente (alias pastoralmente) corretta traduzione del verbo «εἰσφέρω», posto in relazione al sostantivo «tentazione», in Mt 6,13. La Neo-Vulgata, ovvero la traduzione latina ufficiale approvata dalla Chiesa cattolica, interpreta l’espressione greca del testo del Padrenostro in modo molto letterale: «et ne inducas nos in tentationem». La tradizionale versione italiana rappresenta, di fatto, il calco di quella latina: «e non ci indurre in tentazione». Poiché, però, l’espressione nella lingua italiana sembra attribuire a Dio Padre la responsabilità dell’atto di tentare, l’esito del dibattito in sede di Conferenza Episcopale ha convalidato la soluzione che già la stessa aveva adottato per la pubblicazione della revisione del testo biblico ufficiale, in vigore dal 2008: «e non abbandonarci alla tentazione».
Curiosamente, a motivo della variazione del verbo – «non abbandonarci» vs «non ci indurre» – il dibattito si è tutto concentrato sull’idoneità o meno di tali espressioni verbali per interpretare fedelmente il testo originale greco e per evitare, soprattutto, l’imbarazzante affermazione di attribuire a Dio l’ipotesi di ricoprire potenzialmente la parte del «diavolo tentatore»; messi in guardia, in modo esplicito, da almeno due passi biblici, uno dall’AT – Sir 15,11-20 – e dall’ammonimento della Lettera di Giacomo che afferma con chiarezza: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (Gc 1,13).
A ben vedere, la scelta convalidata – «non abbandonarci alla tentazione» – ancor più non allevia l’imbarazzo teologico, nell’ipotizzare la possibilità di un Dio Padre «abbandonante» nei confronti del suo fedele «abbandonato», cioè coscientemente lasciato in balia della tentazione. Ma, nel compromesso della scelta di un verbo in luogo dell’altro, si è più disposti a concedere a Dio di arrivare fino ad «abbandonare» il suo fedele nella tentazione (facendo eco alle ultime parole di Gesù in croce, tratte dal Sal 22,2: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»), piuttosto che affermare che Dio Padre possa essere il responsabile della tentazione stessa; contenuti ultimamente ribaditi dallo stesso Papa Francesco in più occasioni. Il dibattito tra letteralisti, fedeli alla littera del testo, e i Pastori, preoccupati di salvaguardare la giusta prospettiva teologica, si è così riacceso.
In sintesi, la scelta della Conferenza episcopale italiana va nella direzione di «assolvere» Dio Padre dalla situazione imbarazzante contenuta nella littera, per non fargli ricoprire un’attività sconveniente e opposta alla prassi divina, quale quella, appunto, del «tentatore».
2 – Ripensare il problema
a) Prima avvertenza: la discussione sopra riassunta dà per scontato che il sostantivo greco «πειρασμός» debba essere tradotto con «tentazione», calcando il vocabolo latino «tentatio». Il problema nasce però dal fatto che, sia in greco («πειρασμός») come in latino («tentatio»), il sostantivo utilizzato, come pure il relativo verbo («πειράζω/tempto»), abbracciano e uniscono due valori di senso che nella nostra lingua italiana, e in altre lingue moderne, sono invece dissociati al punto da apparire, paradossalmente, antitetici. Anzitutto, «πειρασμός/ tentatio» significa «prova»; la qual cosa evoca fatica, sacrificio, dolore, sofferenza, sfida e produce sulla persona provata un sentimento di allontanamento, di repulsione e di distanza (=la «prova» allontana e la si vuole evitare); dall’altra parte, «πειρασμός/ tentatio» nel linguaggio neotestamentario significa anche «tentazione» ed evoca un sentimento di seduzione, di avvicinamento, segnato dal desiderio e da un piacere attrattivo, che prende la forma dell’inganno del peccato (=la tentazione attira, e si cade vittima d’inganno). Tremendum et fascinans – come il «Sacro» di Rudolf Otto – è la dinamica interna del medesimo termine «πειρασμός/ tentatio» nell’uso neotestamentario.
Pertanto, mentre in greco o in latino entrambe le esperienze possono essere dette con lo stesso vocabolo, nella lingua italiana, dire «prova» o dire «tentazione» significa esprimere esperienze alquanto diverse e distinte: nel discorso biblico neotestamentario, Dio può mettere alla prova il suo fedele ma non lo tenta al male e al peccato!
È chiaro che l’avere scelto nella versione italiana questa seconda semantica («tentazione» invece di «prova») per tradurre l’invocazione del Padrenostro ha condizionato l’intera espressione di Gesù, a tal punto da causare un «cortocircuito teologico», motivo per il quale la Conferenza Episcopale Italiana ha cercato di porre rimedio. D’altra parte, questo del Padrenostro è ciò che gli stessi dizionari della lingua italiana richiamano come tipico esempio d’uso del termine «tentazione», in quanto «invito al peccato».
In sintesi, la causa del problema dibattuto va spostata dall’interpretazione del verbo («abbandonare» vs «indurre») a quella del sostantivo («prova» vs «tentazione»).
b) Seconda avvertenza: l’abitudine invalsa nell’uso liturgico come pure nell’esegesi di stralciare il testo del Padrenostro dal suo contesto originario – ovvero il Vangelo secondo Matteo e in specie, il Discorso della montagna – ha prodotto, a mio modo di vedere, un disorientamento nella ricerca del significato dell’espressione in oggetto. Quando non si capisce un testo, la prima regola dell’esegesi è quella di ricercare il significato nel suo contesto d’origine. Ebbene, appare alquanto interessante il fatto che il riposizionare la preghiera di Gesù nel suo testo genetico (che proviene dalla redazione di Matteo, diversa dalla redazione di Luca) obbliga il lettore a domandarsi in che relazione stia l’espressione in oggetto del Padrenostro con l’esperienza di «tentazione» che il Cristo stesso ha vissuto, secondo il racconto di Matteo (Mt 4,1-11). Ora, non è difficile vedere che la formulazione al passivo dell’incipit del racconto delle tentazioni di Gesù – «allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato («πειρασθῆναι») dal diavolo» (Mt 4,1) – rivolta all’attivo suona come segue: «allora lo Spirito (di Dio) condusse Gesù nel deserto per esser tentato dal diavolo». Qui, chi conduce Gesù nel deserto per essere tentato dal diavolo è esattamente non lo spirito del demonio, bensì lo stesso Spirito di Dio che era disceso su di lui due versetti prima, nell’episodio del Battesimo al Giordano (Mt 3,16-17). Il verbo «ἀνάγω» di Mt 4,1 è praticamente sinonimo di «εἰσφέρω» di Mt 6,13: infatti la Neo-Vulgata interpreta con lo stesso verbo «ducere/ inducere» i due passi: «ductum est in desertum» (Mt 4,1) e «ne inducas in tentationem» (Mt 6,13). È evidente, pertanto, che a condurre Gesù nel deserto per essere tentato dal diavolo fu Dio Padre col suo Spirito e non certo lo spirito del demonio!
Ora, esattamente in questo racconto delle tentazioni di Gesù è possibile scorgere la dinamica e la dialettica della duplice semantica del sostantivo «πειρασμός/ tentatio»: Gesù è condotto nel deserto e vi sta quaranta giorni e quaranta notti a digiuno (Mt 4,2). Egli è profondamente messo alla prova (primo significato di «πειρασμός/ tentatio») dalla fame e al termine dei quaranta giorni e quaranta notti si presenta «il tentatore», cioè colui che ha la soluzione seducente, facile e immediata della «prova» (secondo significato di «πειρασμός/ tentatio»), sfidando Gesù sulla sua identità appena rivelata da Dio Padre al Battesimo: «se sei Figlio di Dio…» (Mt 3,17; 4,3.6). L’opporsi al «tentatore» nella situazione più estrema e radicale della «prova» rappresenta il segno della fedeltà che riconosce in Dio e nella sua Parola ciò che dà senso alla vita dell’uomo. Tale dinamica, segnata, da una parte, dalla fatica della «prova» e, dall’altra, dalla facile seduzione del desiderio e della volontà di potenza delle soluzioni facili, idolatriche e demoniache, è ampiamente attestata nella Bibbia, dal grande ciclo dell’Esodo, con il proverbiale «vitello d’oro», all’intera storia di Gesù. La stessa terminologia ricorre nelle ultime ore di vita terrena di Gesù al Getsemani, esattamente, come per il Padrenostro, in un contesto di preghiera; dopo avere detto ai discepoli «Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione («εἰς πειρασμόν»). Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26,41), il testo aggiunge: «E di nuovo, allontanatosi, pregava dicendo: “Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà» (Mt 26,42). La «prova» dalla quale Gesù chiede al Padre di essere risparmiato è rappresentata dal «bere il calice» che trova la sua massima manifestazione nel racconto del dileggio/ sfida diabolica ai piedi della croce, dove si risentono le parole tentatrici del diavolo: «Se tu sei Figlio di Dio…» (Mt 27,40.43).
Tale, quindi, è la dinamica cristologica del «πειρασμός/ tentatio»: dalla «prova alla tentazione». È possibile allora ipotizzare una ricaduta significativa di questi aspetti per migliorare la traduzione del Padrenostro?
3 – Proposta di soluzione del problema
Alla luce della narrazione di Matteo, l’istruzione sulla preghiera del Padrenostro in tema di tentazione potrebbe allora porsi in questi termini: Gesù invita i suoi discepoli a pregare il Padre dei cieli affinché possa risparmiarli dalla «prova» che, contestualmente è rappresentata dalle persecuzioni in nome di Cristo e per il Vangelo (Mt 5,10-12); e, nel medesimo tempo, l’invocazione apre la possibilità anche di una risposta negativa: se Dio Padre non vorrà risparmiarli dalla prova, l’imitazione di Cristo porta ad accogliere la sua volontà, come è detto nella prima parte del Padrenostro: «sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra» (Mt 6,10). Come è evidente, si tratta della stessa forma della preghiera sul «calice» di Gesù nel Getsemani e tale è l’invocazione del Padrenostro per il discepolo che voglia imitare il Cristo.
E per comprendere come questa dinamica evangelica possa essere riproposta in traduzione, occorre riconoscere quanto le ultime affermazioni del Padrenostro («e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male», Mt 6,13), che spesso sono intese come invocazioni distinte (al fine di avere sette domande nel Padrenostro) di fatto altro non sono che le due facce della medesima esperienza della «prova–tentazione», come lo fu per Gesù nel deserto, al Getsemani e sulla croce.
In questo senso, la preghiera del discepolo che voglia seguire le orme di Gesù potrà assumere questi significati, reinterpretati a partire dal testo greco di Mt 6,13, così come segue: «e non ci indurre nella prova, ma liberaci dal Maligno». Il Maligno, il Diavolo interviene nel momento più difficile della «prova» ed è lì che l’invocazione a Dio Padre è di liberazione! Infatti, invece dell’espressione «liberaci dal male» è possibile interpretare il testo nella personificazione vera del male che è rappresentata dal «Maligno», cioè il «tentatore». Come è noto, il sintagma «ἀπὸ τοῦ πονηροῦ» può significare, al maschile, «dal Maligno» (Mt 5,37; 13,19.38; Gv 17,15; Ef 6,16; 2Ts 3,3; 1Gv 2,13-14; 3,12; 5,18-19) oppure, al neutro, «dal male». Da questo punto di vista, ad esempio, la versione della Chiesa Cattolica, in lingua inglese, della New Jerusalem Bible (1990) traduce: «And do not put us to the test, but save us from the Evil One».
Così intese le due espressioni finali di fatto sono una sola, e altro non fanno che avvalorare la struttura della «prova-tentazione» contenuta nel sostantivo «πειρασμός/ tentatio», secondo la proposta del Vangelo di Matteo: la prima parte riguarda l’invocazione rivolta a Dio Padre di «non indurci nella prova», ovvero, secondo le parole al Getsemani, di «allontanare da noi questo calice» mentre la seconda parte, quella più decisiva, chiede di «essere liberati/ salvati dal Maligno», cioè dal «tentatore», ovvero dall’esperienza della tentazione che, come inganno, si colloca sovente, nella spiritualità cristiana, al vertice della «prova»; e lì, nel momento più alto della «prova» di fedeltà del discepolo, si invoca l’intervento liberatore e di salvezza di Colui che è più forte del Maligno, Dio Padre stesso. E la congiunzione «ma» (in greco «ἀλλὰ») non avrebbe alcuna funzione avversativa bensì asseverativa, permettendo così di tenere unite le due affermazioni, istituendo una dinamica in crescendo. In questa prospettiva, che tiene assieme le due dimensioni della stessa esperienza («prova-tentazione»), il Padrenostro si conclude con un’invocazione che è anche una professione di fede nel Dio Padre che salva dalle forze del Maligno che possono far soccombere ogni volontà umana del discepolo di Cristo.
In sintesi, la lettura qui proposta si colloca ben distante dall’evocare un «Dio Padre-tentatore» quanto piuttosto un «Dio Padre-salvatore» dalle forze del Maligno che si annidano, con le loro trame, in specie, nel tempo della prova.
Così, dunque, si presenta il Padrenostro al termine dell’analisi offerta:
Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano; rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori e non ci indurre nella prova ma liberaci dal Maligno.
Don Silvio Barbaglia
Docente di Esegesi biblica presso il Seminario “San Gaudenzio” di Novara