Ho sessant’anni suonati, sono sposato da trentaquattro (con una donna, sempre la stessa), ho sei figli e tre nipoti. Sono sempre stato natalista e antiabortista, tanto che la mia tesi di laurea in Teoria e tecnica dell’informazione fu dedicata al modo truffaldino con cui la stampa progressista spacciò l’aborto come un diritto di libertà e sulla stessa linea fu il mio primo libro, scritto quando avevo ventotto anni.
Perché racconto tutto ciò? Perché in questi giorni ho letto Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo, di David Benatar (Carbonio Editore, 256 pagine, 16,50 euro) e devo dire che raramente mi è capitato di confrontarmi con un pensiero così radicalmente opposto al mio. Eppure, in questo nostro tempo, segnato sotto molti aspetti dalla confusione e dall’ambiguità, sento di dover rendere l’onore delle armi all’autore, come si fa con i nemici che si sono battuti onorevolmente. Perché Benatar è chiaro, trasparente, e non fa assolutamente nulla per addolcire la pillola o girare attorno al discorso. Secondo lui non nascere è molto meglio che nascere. Anzi, venire al mondo è sempre un male. Punto. Dopo di che sta a noi, nel caso, confutare i suoi argomenti.
Già dalla dedica (“Ai miei genitori, anche se mi hanno messo al mondo”) la posizione di Benatar è ben delineata. “Ognuno di noi – scrive – ha subito un oltraggio nel momento in cui è stato messo al mondo. E non si tratta di un oltraggio da poco poiché anche la qualità delle vite migliori è pessima, e notevolmente peggiore di quanto riconosca la maggior parte delle persone”.
La tesi è dunque semplice. Poiché la vita, inevitabilmente, è dolore, e poiché nessuno chiede di venire al mondo, dare la vita è qualcosa di “moralmente problematico”. In pratica equivale a una condanna. Siccome la procreazione provoca una grande quantità di dolore a un soggetto innocente, venire al mondo è sempre un grave male. Dunque “le persone non devono più fare bambini”, “è bene essere a favore dell’aborto (almeno nei primi stadi della generazione”) e “sarebbe meglio se non ci fosse più vita cosciente sul pianeta”.
Dite la verità: siete sconcertati, non è vero?
Ora, come rispondere a un’argomentazione del genere? Su un piano strettamente umano, senza ricorrere alla fede religiosa e all’esistenza di un Dio creatore, si può rispondere che non è vero che la vita è solo dolore, che ci sono anche le gioie e i momenti positivi, che alcuni sentimenti (quali l’amore e l’amicizia) e alcune esperienze (per esempio l’emozione di fronte alla bellezza della natura o dell’arte) fanno della vita umana un’esperienza che merita di essere vissuta. Tuttavia tale risposta a un certo punto si deve arrendere: di fronte all’inevitabilità della morte, alla fine il dolore prevale su ogni possibile gioia ed esperienza positiva. Alla fine il non essere prevale sull’essere. E quando l’esito finale è solo il nulla, è difficile trovare un senso alla vita, per quanto possa essere stata soddisfacente e vissuta in pienezza.
Non sono filosofo e mi scuso se vado un po’ per le spicce (mia moglie lo è, e immagino già che leggerà queste mie righe alzando il sopracciglio), tuttavia sento di poter sostenere che l’unica risposta che davvero può opporre un’argomentazione valida a quelle di Benatar è la risposta religiosa. E più precisamente la risposta cristiana. Solo la fede in un Dio creatore, un Dio padre che ci vuole bene, può mostrarci la vita non come condanna o come regalo avvelenato, ma come dono bello e buono. Bello e buono non solo perché, mentre siamo in vita, possiamo rivolgerci a lui, stare in sua compagnia e avvertire il suo amore, ma perché tale paternità ci assicura che con la morte non finisce tutto, bensì tutto ha inizio: dopo la morte infatti potremo stare faccia a faccia con lui e addirittura potremo vivere in lui, unendoci al suo amore eterno.
Benatar sa bene che la sua tesi, volutamente radicale, può far sorgere dubbi sulla salute mentale e psichica dell’autore. Infatti a un certo punto, verso la fine del libro, egli stesso sente il bisogno di chiedersi: “I miei ragionamenti sono esempi di una ragione impazzita?”. Tuttavia va dritto per la sua strada e non si nasconde. Il suo è un pessimismo totale. A ciglio asciutto, senza piagnistei, ma è comunque pessimismo totale, di fronte al quale l’ottimista, per quanto possa essere deciso e motivato, fatica a trovare contro-argomentazioni. Perché uno può pensare che le cose, in fondo, vanno meglio di come sembra, che il bello è superiore al brutto, che nel mondo c’è più bontà che malvagità, che è meglio guardare il lato positivo, ma alla fine c’è sempre il problema insormontabile della morte.
Benatar si guarda attorno e trova che il comportamento di chi decide di avere figli sia altamente contraddittorio: “Mentre le brave persone fanno ogni cosa per risparmiare la sofferenza ai propri figli, pochi di loro hanno capito che il modo migliore per prevenire le sofferenze dei figli è non metterli al mondo”.
Ripeto ancora una volta che non sono d’accordo con tale argomentazione, eppure sento di dover ringraziare chi, come l’autore, la propone in modo così diretto e brutale. Perché mi obbliga a concludere che sì, in effetti, per quanto io possa sforzarmi di rendere la vita di un figlio gradevole e serena, il regalo più prezioso che gli posso fare non è quello di permettergli di passare da una bella esperienza a un’altra bella esperienza, ma quello di aiutarlo a trovare un senso alla vita. Il che significa trovare un senso anche alla sofferenza, anche al dolore e anche alla morte.
Poiché Bernatar è molto chiaro, voglio esserlo anch’io. Quando dico che il regalo più bello che un genitore può fare a un figlio è aiutarlo a trovare un senso alla vita penso in effetti alla fede religiosa, e specificatamente alla fede cristiana all’interno della Chiesa cattolica.
La fede può sbocciare solo nella libertà, e per questo parlo di “aiuto”. Di quale tipo? Si tratta di mostrare che, oltre alla fisica, c’è la metafisica. Che oltre al naturale c’è il soprannaturale. E che la ragione umana non è più fedele a se stessa quando rinuncia alla ricerca pensando che il soprannaturale non sia di sua pertinenza, bensì quando, al contrario, si innalza fino alla trascendenza.
A ben guardare, infatti, la vera differenza tra chi, come il sottoscritto, crede che la vita sia bene, e dunque sia bene perpetuarla, e chi, come Benatar, pensa che la vita si male e dunque sia necessario estinguerla, è la disponibilità a rivolgersi alla trascendenza. Se ci fermiamo su un piano strettamente umano, il pessimismo totale di Benatar, per quanto possa essere sgradevole, ha inevitabilmente la meglio.
Dunque, onore a questo avversario sincero e chiaro. Che mi permette di poter dire, da papà e nonno, che il regalo più prezioso che io possa fare ai miei figli e nipoti non è aiutarli a schivare dolore e sofferenza, ma invitarli a quaerere Deum, a cercare Dio. E, come direbbe Benedetto XVI, a lasciarsi trovare da lui.
Aldo Maria Valli