La musica sacra è (anche) un lavoro
Secondo articolo del maestro Aurelio Porfiri
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Come detto in precedenza, i poveri musicisti, specie quelli che lavorano per la Chiesa, scontano l’idea sbagliata che la musica non sia un vero e proprio lavoro, ma una sorta di svago innocente che non va nobilitato con una giusta, seppur modesta, remunerazione. Il termine «lavoro» proviene dal latino labor, fatica, che sembra provenire da una radice labh, con il senso di indirizzare la propria volontà verso qualcosa. Quindi lavoro in senso ampio è dedicarsi a qualcosa con forte intenzionalità. Certo non ogni lavoro deve essere per forza compensato: se a me piace costruire modelli navali o fare complicati puzzles, certamente non chiederò ad altri di compensarmi, in quanto il lavoro e la fatica in questo caso sono per il mio piacere personale. Ma quando si svolge un lavoro per una data comunità allora le cose cambiano. Nessuno si scandalizza se viene pagato il fioraio che adorna l’altare, l’elettricista che ripara l’impianto di amplificazione della chiesa o il sacrestano che presta il suo servizio per il buon svolgimento delle liturgie; ma ad alcuni sembra strano, quasi bizzarro, che si debba pagare un musicista che professionalmente può contribuire alla maggior efficacia della musica nella liturgia per la gloria di Dio e l’edificazione dei fedeli.
Il servizio che il musicista liturgico svolge è a favore della comunità dei fedeli. Qui si confonde l’atteggiamento personale con il profilo professionale. Si dice: non si pagano le persone per pregare. È giusto (ma magari allora bisognerebbe precisare il profilo di certi canonici…). Ma qui non si paga il musicista per pregare, bensì per svolgere un servizio in favore della comunità. Anche i fiori servono per adornare gli altari verso cui preghiamo, anche il microfono serve per rendere la preghiera più intellegibile, ma nessuno chiede al fioraio o all’elettricista se pregano, prima di pagarli. Io credo ci sia una strategia dietro questa esaltazione del volontariato, ma di questo dirò poi.
Riconosciuto che il lavoro del musicista di Chiesa è un lavoro a tutti gli effetti, bisogna anche poi avere chiaro in mente che spesso, a differenza di un fioraio, un elettricista o un sacrestano (con tutto il profondo rispetto per queste professioni), il musicista di Chiesa che ha percorso un certo ciclo di studi, con o senza diploma, ha già speso per lezioni, libri e materiale vario molte migliaia di euro. Io non penso dunque che sia contrario all’etica o alla morale che sia debitamente sostenuto da coloro che con il suo servizio aiuta a pregare.
Leggiamo che cosa dice il Codice di diritto canonico: «Can. 230 – §1. I laici di sesso maschile, che abbiano l’età e le doti determinate con decreto dalla Conferenza episcopale, possono essere assunti stabilmente, mediante il rito liturgico stabilito, ai ministeri di lettori e di accoliti; tuttavia tale conferimento non attribuisce loro il diritto al sostentamento o alla rimunerazione da parte della Chiesa. §2. I laici possono assolvere per incarico temporaneo la funzione di lettore nelle azioni liturgiche; così pure tutti i laici possono esercitare le funzioni di commentatore, cantore o altre ancora a norma del diritto. §3. Ove lo suggerisca la necessità della Chiesa, in mancanza di ministri, anche i laici, pur senza essere lettori o accoliti, possono supplire alcuni dei loro uffici, cioè esercitare il ministero della parola, presiedere alle preghiere liturgiche, amministrare il battesimo e distribuire la sacra Comunione, secondo le disposizioni del diritto. Can. 231 – §1. I laici, designati in modo permanente o temporaneo ad un particolare servizio della Chiesa, sono tenuti all’obbligo di acquisire una adeguata formazione, richiesta per adempiere nel modo dovuto il proprio incarico e per esercitarlo consapevolmente, assiduamente e diligentemente. §2. Fermo restando il disposto del can. 230, §1, essi hanno diritto ad una onesta rimunerazione adeguata alla loro condizione, per poter provvedere decorosamente, anche nel rispetto delle disposizioni del diritto civile, alle proprie necessità e a quelle della famiglia; hanno inoltre il diritto che in loro favore si provveda debitamente alla previdenza, alla sicurezza sociale e all’assistenza sanitaria».
Questo passaggio, un poco tortuoso, mi sembra però dica chiaramente una cosa: viene richiesto ai laici che prestano un particolare servizio nella Chiesa di essere giustamente ben preparati e a questi deve essere riconosciuta una giusta remunerazione. «Particolare» significa ben qualificato, cioè che non può essere svolto da tutti senza una adeguata preparazione.
Nel 1981 Giovanni Paolo II diceva queste parole nella Laborem exercens: «Eppure, con tutta questa fatica – e forse, in un certo senso, a causa di essa – il lavoro è un bene dell’uomo. Se questo bene comporta il segno di un “bonum arduum”, secondo la terminologia di San Tommaso, ciò non toglie che, come tale, esso sia un bene dell’uomo. Ed è non solo un bene “utile” o “da fruire”, ma un bene “degno”, cioè corrispondente alla dignità dell’uomo, un bene che esprime questa dignità e la accresce. Volendo meglio precisare il significato etico del lavoro, si deve avere davanti agli occhi prima di tutto questa verità. Il lavoro è un bene dell’uomo – è un bene della sua umanità -, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, “diventa più uomo”. Senza questa considerazione non si può comprendere il significato della virtù della laboriosità, più particolarmente non si può comprendere perché la laboriosità dovrebbe essere una virtù: infatti, la virtù, come attitudine morale, è ciò per cui l’uomo diventa buono in quanto uomo. Questo fatto non cambia per nulla la nostra giusta preoccupazione, affinché nel lavoro, mediante il quale la materia viene nobilitata, l’uomo stesso non subisca una diminuzione della propria dignità. E noto, ancora, che è possibile usare variamente il lavoro contro l’uomo, che si può punire l’uomo col sistema del lavoro forzato nei lager, che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione dell’uomo, che infine si può in vari modi sfruttare il lavoro umano, cioè l’uomo del lavoro. Tutto ciò depone in favore dell’obbligo morale di unire la laboriosità come virtù con l’ordine sociale del lavoro, che permetterà all’uomo di “diventare più uomo” nel lavoro, e non già di degradarsi a causa del lavoro, logorando non solo le forze fisiche (il che, almeno fino a un certo grado, e inevitabile), ma soprattutto intaccando la dignità e soggettività, che gli sono proprie». Che parole stupende quelle del grande Pontefice! Ma nel nostro caso particolare, sono esse osservate e capite? E qui allora bisogna parlare del volontariato liturgico e dei dilettanti allo sbaraglio.
Aurelio Porfiri