Liturgia, musica sacra, livello culturale nella Chiesa. Il maestro Aurelio Porfiri prosegue nella sua riflessione e punta l’attenzione su quel sentimentalismo zuccheroso che anche attraverso la musica sacra è entrato nella vita della Chiesa deformando la spiritualità cattolica. Perché questa situazione? Solo la conseguenza di una serie di errori o il frutto di una precisa strategia?
A.M.V.
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Nei precedenti interventi ci siamo occupati del basso livello culturale che caratterizza anche la vita della Chiesa. Ora, specialmente nei paesi dell’Occidente, non possiamo negare che il livello culturale medio delle persone si è grandemente alzato. Rispetto al passato, molte più persone possiedono elevati titoli di studio e hanno modo di conoscere e informarsi. Accanto a questo abbiamo però un imbarbarimento dell’offerta culturale, quasi del tutto dominata dalle logiche commerciali. Quindi se da un lato le persone sono in grado si sapere di più e meglio, dall’altro sono esposte al rischio della manipolazione da parte dei mass media e dell’industria culturale, un mondo che dispone di mezzi economici enormi e sa come controllare e manovrare la narrativa. Chi controlla la cultura (Antonio Gramsci docet) ha il controllo della gente.
Anche i buoni cattolici che anzora vanno a Messa sono inevitabilmente il frutto di questa società in gran parte dominata da una narrativa imposta per fini commerciali e ideologici. Quindi, tranne rare e lodevoli eccezioni, le persone che vanno a Messa, come tutte, sono (de)formate da impulsi potentissimi. Proprio per questo sarebbe stato necessario uno sforzo grande, dopo la riforma liturgica, per mantenere alto il livello delle celebrazioni, disporre di musicisti capaci e professionali ed evitare le derive alle quali oggi assistiamo. Ma non è stato così.
La cosa strana è che se devi parlare di teologia, chiami un teologo; se devi parlare di medicina, chiami un medico; se devi parlare di filosofia, chiami un filosofo; invece quando si tratta della musica sacra ecco che ci può mettere mano chiunque. Non ne faccio questione di diplomi, ma di preparazione professionale.
Nel momento di valutare un musicista bisognerebbe porre domande precise. Conosce adeguatamente il repertorio tradizionale della Chiesa? È in grado di valutare il livello qualitativo di una composizione? Conosce bene la liturgia e le sue scansioni rituali? Possiede un livello tecnico adeguato per suonare, dirigere, cantare? Ha una preparazione musicale di base adeguata?
Possedere un curriculum all’altezza del compito richiede studio, tempo, preparazione, approfondimento. Ecco perché senza un investimento in questa direzione ci si consegna al dilettantismo volontaristico che non porta a nulla, se non all’assoggettamento alla narrativa imposta dall’alto. Una narrativa che viene dalla società ma, purtroppo, anche dalla Chiesa.
Ci sono infatti ampi settori della Chiesa che cercano di imporre una certa visione del cattolicesimo, in contrasto con la tradizione della Chiesa stessa. Questa visione, segnata dalla demagogia, dall’enfasi posta sul “popolo” e dalla richiesta di abbassare il livello della proposta per aiutare la “partecipazione”, è ormai trionfante nelle nostre liturgie. E così eccoci al paradosso: mentre le persone hanno mezzi culturali potenzialmente più elevati, si ritiene un bene tenerle nella mediocrità culturale. Una mediocrità che poi inevitabilmente si riflette in una pochezza spirituale.
Ma è vero che le persone non apprezzano più la tradizione musicale della Chiesa? Che non apprezzano le belle forme nella musica, come chiedeva san Pio X? Che fuggono di fronte al bello musicale?
Certamente non è vero. È vero che sono diseducate, ma quando vengono adeguatamente istruite e rese consapevoli dell’effetto spirituale della vera musica sacra, l’apprezzano moltissimo.
Ecco il punto: l’adeguata preparazione. Non è stato proprio il Vaticano II a richiamare l’importanza della formazione liturgica dei fedeli? Invece abbiamo avuto la desertificazione culturale e liturgica.
A mio giudizio dietro c’è una strategia. L’idea è sradicare la vera musica sacra dalla liturgia per sostituirla con una musica in linea con la narrativa dominante, fatta di misericordia senza giustizia. Ecco così la musica dolciastra e sentimentale che domina nelle nostre liturgie, buona per infiacchire ancora di più le già prostrate anime dei fedeli. Chi ha potuto abbeverarsi ad una fonte più pura, sente repulsione per i repertori che vanno per la maggiore nelle nostre parrocchie. Chi conosce la vera musica sacra rifiuta il sentimentalismo zuccheroso della musica attuale.
Il sentimentalismo è la corruzione del sentimento. Mentre quest’ultimo, quando si volge alla religione, può portarci a Dio, il sentimentalismo è un’autocelebrazione. Il sentimentalismo non aiuta a raggiungere Dio ma si autocompiace della propria fragile emozionalità. Una liturgia ripiena di canti all’insegna del sentimentalismo si autodistrugge dall’interno.
Questo sentimentalismo di tono effemminato si sposa con un clima culturale generale di sdilinquimento. E così eccoci in preda a una certa svenevolezza che nulla ha a che fare con la spiritualità cattolica.
Mi chiedo: se ogni chiesa disponesse di un musicista capace e professionalmente formato, sarebbe ancora possibile per questi orribili repertori diffondersi come succede adesso? Forse i problemi non sarebbero eliminati, ma certamente il sentimentalismo incontrerebbe qualche ostacolo, perché un musicista che sappia il fatto suo è in grado di distinguere la vera musica sacra da quella falsa.
Torno a chiedermi: non sarà che questa mediocrità, che si nutre anche dell’estromissione dei bravi musicisti dalla Chiesa, fa il gioco di una certa narrativa che si è imposta a vari livelli? Non sarà che questa mediocrità è uno strumento utile per veicolare messaggi che non potrebbero passare con altrettanta facilità se nei fedeli ci fosse una maggior consapevolezza circa il bello e il sacro?
Aurelio Porfiri