Il maestro Aurelio Porfiri prosegue nella riflessione sulla situazione della musica sacra eseguita in chiesa e, con l’aiuto di Alain Deneault, autore di La médiocratie (nell’edizione italiana Mediocrazia), ci porta oggi a ragionare sui costi della mediocrità e sul suo uso strumentale.
A.M.V.
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I miei pochi lettori (mi tengo più nel vago rispetto al grande Alessandro Manzoni) mi scuseranno se torno a puntare l’attenzione sul tema della mediocrità e del suo rapporto con il professionismo nella musica di Chiesa.
Come detto in precedenza, non tutto il volontariato è mediocre. Anzi, facevamo l’esempio dei medici che vanno in altri paesi per prestare servizio volontario di loro iniziativa, scegliendo di dedicare tempo al di fuori del lavoro per aiutare coloro che sono nel bisogno. Allo stesso modo, chi è qualificato e sceglie di dedicare gratuitamente tempo e risorse per la musica di chiesa non appartiene alla categoria dei mediocri. Eppure anche in questo caso avrei qualcosa da osservare, perché la musica per la liturgia, se fatta bene, richiede un’attenzione continua e una cura tale da non conciliarsi con l’attenzione episodica che un volontario, per quanto bravo, può dedicarle.
Spesso nelle chiese si chiede di suonare o cantare a chiunque meno che alle persone qualificate. Sei parente del parroco? Va bene, allora puoi suonare e cantare. Sei un autodidatta di buona volontà? Va benissimo. E via così. La verità è che non si attribuisce molta importanza alla musica e al canto liturgico perché non si dà importanza alla liturgia tout court. E non dimentichiamo che la liturgia non può mai essere gratis: fiori, elettricità, abiti, libri liturgici, offerta per il sacerdote; tutto ha un costo. Solo per la musica si pretende che non ci siano costi.
Ma torniamo sul concetto di mediocrità, che va precisato. C’è infatti la mediocrità intesa come via mediana, che è forse meglio chiamare medietà, e la mediocrità intesa come non eccellenza. E questo secondo tipo di mediocrità secondo me in molti settori viene favorito, perché permette un maggiore controllo nei confronti dei sottoposti.
Ne parlo con il sociologo Alain Deneault, autore di La médiocratie, tradotto in italiano dall’editore Neri Pozza con il titolo Mediocrazia, il quale spiega: “Cerco di fare una distinzione tra mediocrità e incompetenza. Non sono sinonimi. Il potere stabilito non vuole persone completamente incapaci, che non si presentino in tempo, ignorino le istruzioni ed entrino in crisi all’idea di compilare un modulo. Vuole persone mediocri. E la mediocrità ha un costo. Per i tecnici delle luci, ad esempio, lavorare a un telefilm trash è molto impegnativo: devono soddisfare gli standard, seguire le linee guida ed essere in grado di lavorare in squadra. Il risultato, tuttavia, è sorprendentemente povero: molto più che se la persona avesse pensato alle luci per una commedia o un film in modo creativo. Molto lavoro è coinvolto in entrambe le situazioni, ma il primo caso implica un insieme di parametri fissato in modo rigido. La mediocrazia consiste nel forzare il tecnico delle luci, per restare al nostro esempio, a lavorare in base a queste norme facendo a meno della sua genuina abilità di artigiano. Si può certamente essere una persona mediocre molto competente: una persona laboriosa, servile ma priva di credenze o passioni proprie. Se sei così, il futuro è tuo. Le istituzioni hanno bisogno di questo tipo di soggetto in tutti i campi, specie come manager e direttori. Ciò che il potere odia veramente è avere a che fare con persone politicamente e moralmente impegnate o che sono profondamente originali nei loro pensieri e metodi. Le modalità mediocratiche, portate alla perfezione durante la modernità, possono essere applicate in modo efficiente su una scala molto ampia di situazioni. L’attuale standardizzazione di pratiche, modi di operare, terminologie, forse persino gusti e sensazioni, non ha eguali nella storia”.
Condivido l’analisi, ma credo sia necessario fare un distinguo per quanto riguarda la Chiesa, la quale ha ragione quando chiede al musicista di seguire alla lettera le norme liturgiche, perché la liturgia non è il luogo della creatività selvaggia. Ma proprio da questo rispetto, incarnato da colui che lo ha fatto completamente suo, può nascere una vera e sana creatività, come si vede bene nel caso della grande musica dell’Occidente cristiano. La Chiesa non ci chiede di essere originali, bensì di essere attenti all’origine. Non ci chiede di guardarci le scarpe, ma di osservare la legge oggettiva al di fuori di noi. Un musicista che ha interiorizzato le leggi fondamentali del fare musica per la Chiesa e nella Chiesa non è mai mediocre nel senso rappresentato da Deneault. Perché proprio l’aprirsi al mistero attraverso la guida della tradizione liturgica della Chiesa ci libera dalle paranoie del mondo.
Torno a parlarne con Deneault, il quale aggiunge: “La media di cui stiamo parlando non è correlata ad alcuna analisi morale o teorica di ciò che potrebbe essere il termine medio in un’ampia gamma di possibilità. Piuttosto, è la media definita dai poteri stabiliti che hanno interesse a definirla in questo modo. In questo senso, ciò che un regime considera un comportamento e una mentalità media è in realtà un punto di vista strumentale“.
Interessante. Possiamo allora dire, seguendo il ragionamento, che anche nella Chiesa abbiamo una mediocrità fissata in modo strumentale?
Mi viene da pensare a quanto detto da Robert Hughes nel suo libro La cultura del piagnisteo: “Col diffondersi anche in campo artistico di una lacrimosa avversione all’eccellenza, la discriminazione estetica viene tacciata di discriminazione razziale o sessuale. Su questo argomento pochi prendono posizione, o rilevano che in materia d’arte ‘elitarismo’ non vuol dire ingiustizia sociale o inaccessibilità. La vacca sacra della cultura americana è, attualmente, l’Ego: l’autostima è inviolabile, sicché ci affanniamo a trasformare le accademie in un sistema in cui nessuno può fallire. In questo spirito potremmo purgare il tennis dei suoi sottintesi elitari: basta abolire la rete”.
In effetti, nel nostro caso, parlare dell’uso strumentale del termine “elitario” e del male che esso ha fatto alla musica liturgica, non potrà che farci capire meglio la posta in gioco.
Aurelio Porfiri