“Così, per me, il seminario è stato il regno dell’ambiguità e dell’errore”
Cari amici di Duc in altum, dopo la pubblicazione della testimonianza del giovane prete sulla sua (mancata) formazione in seminario, eccone oggi un’altra altrettanto significativa. L’autore, che si firma con il solo nome di battesimo, ci aiuta a entrare ancora meglio in un mondo in cui le ombre, ahinoi, prevalgono sulle luci. Se la “formazione” che si riceve è questa, come stupirsi che nella Chiesa si diffondano eresia e apostasia?
Ricordo che per inviare testimonianze sui seminari è attivo il seguente indirizzo mail:
inchiestaseminario@yahoo.it
A.M.V.
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Storia di Alberto
Mi chiamo Alberto, sono un laico, ho studiato cinque anni Scienze religiose per poter insegnare religione cattolica nelle scuole superiori.
Devo confessare, purtroppo, che anche a me l’esperienza in seminario ha riservato più ombre che luci. Da cattolico non avrei mai pensato di arrivare a tanto − e fa molto male riconoscerlo −, ma a quegli amici o a quegli alunni che mi confidano il desiderio di intraprendere gli studi teologici suggerisco molta cautela e soprattutto di non iscriversi al seminario frequentato dal sottoscritto. Meglio una fede intellettualmente semplice ma solida nel cuore e nei fondamenti piuttosto che una fede dottorale imperniata su basi dottrinali ambigue o erronee; meglio rimanere “piccoli come bambini” (Mt 18,4), piuttosto che abbracciare una certa “fede adulta”.
A questa triste conclusione sono giunto perché in seminario ho sentito davvero di tutto.
Naturalmente i professori, almeno quelli più scafati, camuffano il loro pensiero utilizzando un lessico e una fraseologia che non appaiano in esplicito contrasto col magistero. È tutto un fine e strategico giuoco di silenzi, allusioni, avverbi, interrogativi, alchimie etimologiche, citazioni decontestualizzate, analogie e antitesi calate ad hoc nel discorso per veicolare una certa idea, generalmente eterodossa, senza asserirla letteralmente (deve trattarsi di una singolare esegesi di 2Cor 3,6: «La lettera uccide, lo Spirito dà vita»). A parlar chiaro, d’altronde, il rischio è quello di perdere la cattedra e di tornare a fare i normali parroci. Bisogna alludere, non asserire.
Voglio, per esempio, contestare il magistero petrino? Il docente navigato si guarderà bene dal farlo apertis verbis; egli farà semplicemente calare una fitta coltre di silenzio su tutti i documenti magisteriali ritenuti scomodi. Veritatis Splendor? Fides et Ratio? Dominus Iesus? Chi li ha mai sentiti in seminario? Il docente, in genere, non si oppone al papa, lo fa sparire: etsi papa non daretur. Come tutti i giovani studenti, anche i seminaristi e i futuri insegnanti si fidano dei loro professori. Perché mai dovrebbero perdere tempo ed energia per scavare autonomamente tra le pagine del Catechismo della Chiesa cattolica o del Denzinger per verificare la correttezza e la completezza delle spiegazioni ricevute? Poi, però, non dimentichiamocelo, i primi predicheranno da un pulpito e i secondi andranno dietro una cattedra.
In altri casi, quando nemmeno i silenzi o le più ardite acrobazie dialettiche sono sufficienti per inculcare una certa tesi, accade che la bordata teologica venga messa in bocca sic et simpliciter a qualcun altro senza alcuna critica successiva, ed il giuoco è fatto. Dietro un distaccato ipse dixit – l’odierno sentire della società secolarizzata, quel tal teologo protestante, quel tal filosofo agnostico, quella tale pensatrice femminista, ma anche, più semplicemente, attraverso un non verificabile “mi si riferisce che” – si può dare visibilità pubblica e far passare qualsiasi idea senza essere formalmente imputabili di nulla. D’altronde − mi si obietterà − trattasi di prassi accademica: un professore che non cita, che non allarga gli orizzonti, che non si rapporta a ciò che sta attorno… che professore è? E non era forse san Paolo che diceva «esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Ts 5,21)? Anche Tommaso, poi, nella Summa citava, eccome! Nella mia esperienza seminariale, però, spesso e volentieri è mancata una parte: il momento del dicitur, dell’analisi dei filoni teologici ideologicamente indirizzati, ha fagocitato fino ad annullare il momento della sintesi, ovvero la posizione del magistero cattolico. Con buona pace di san Paolo, poco di buono ho trattenuto perché su tanto di buono si è sorvolato. È mancato il respondeo dicendum.
Cercare di compensare questo gap teologico costruendosi una propria bibliografia di studio è, oltre che un pizzico nicodemita ed estremamente faticoso perché bisogna studiare il doppio, anche particolarmente rischioso. Ero alle prese con una tesi su sant’Agostino e, fra i vari autori, citai Ratzinger, noto conoscitore dell’Ipponate. Il relatore fece pressione affinché lo depennassi, disse che le sue erano posizioni ormai superate sia in sede esegetica che teologica (in quel momento Ratzinger era papa!) e la commissione non avrebbe apprezzato tale riferimento. Io lasciai Ratzinger là dov’era e alla discussione della tesi i commissari si tolsero qualche sassolino dalla scarpa; ma non voglio insistere su questo. Ad una mia brillante compagna di studi, invece, è capitato di citare in bibliografia troppi autori cattolici: in quel caso il suo relatore ravvisò nell’elaborato − testuale − un «deficit ecumenico», ingiungendole di ampliare l’orizzonte. Ad un altro mio compagno che insisteva con troppo acume sui temi della metafisica – lasciando non di rado il professore a corto di argomentazioni − è stato chiesto, con una certa stizza, se per caso non facesse parte di CL.
Esaminate tutto, insomma (1Ts 5,21), ma se esaminate e tenete solo una parte (Bonhoeffer, Heidegger, Bultmann, Lévinas, Lutero, Schillebeeckx…) è meglio.
Ma entriamo un poco in medias res con qualche esempio ancora più concreto.
1) Sulla verginità di Maria. Da un punto di vista “dogmatico” – dicevano i miei professori − sul concepimento virginale di Gesù non si discute; ma un conto è il “dogma”, che deve essere mantenuto tale, un conto è la “storia”. La formulazione dogmatica non necessariamente coincide con la dimensione storica, perché anzi si pongono su due livelli ontologici diversi: astratto e atemporale il primo, concreto-vivente il secondo. Punto, spiegazione finita. Qualcuno può forse essere tacciato di aver contestato il dogma? No. Ma chi ha orecchie per intendere ha inteso bene…
2) Sull’autocoscienza di Cristo. Gesù sapeva di essere Figlio di Dio? Un mio professore sosteneva che Gesù maturò l’“autocoscienza filiale” solo al momento della sua morte in croce. Alla mia obiezione che, forse, ad un certo punto sua madre deve avergli rivelato qualcosa sul suo “strano” concepimento, il prof ha reagito fulminandomi con uno sguardo misto tra l’imbarazzato e il compassionevole, come a dire: poverino, non hai capito nulla ma non posso spiegarti il perché. Del resto, se il “dogma” del concepimento verginale è altro dalla “storia”, la mia obiezione si risponde da sé.
3) Sul magistero petrino. Voglio denigrare la figura del pontefice senza prestare il fianco al richiamo dell’autorità ecclesiastica: come faccio? Quando alcuni miei docenti biblisti facevano esegesi, cioè interpretavano e commentavano la Scrittura, ogni volta che Pietro fa brutta figura – rinnega Cristo (Mc 14,66ss), usa violenza contro Malco amputandogli un orecchio (Gv 18,10), “viene convertito” dal pagano Cornelio (così, sic, i miei professori inquadravano il testo di Atti 10) eccetera − non mancavano di specificare che Pietro era, alla fine dei conti, il primo papa. Qualcuno ha forse contestato il primato petrino? No. Ma se il buon giorno si vede dal mattino…
4) Sul peccato originale. Quando il silenzio tombale su questo tema veniva infranto da qualche docente, era solo per ricordarci che quella (desueta) espressione, “peccato originale”, nella Bibbia non compare da nessuna parte. Punto. Una buona occasione persa per ricordare a noi studenti che il principio del sola Scriptura è luterano, non cattolico. E ancora una volta è passato un messaggio falso (il peccato originale non è verità rivelata) dicendo una cosa vera (l’espressione “peccato originale” non è biblica).
5) Sulla natura dei miracoli. I miracoli non sono “fuochi d’artificio!” tuonavano all’unisono i miei insegnanti, un’espressione camuffata per affermare che essi non sono di ordine soprannaturale (cfr. al contrario DH 4403). Tutti i docenti hanno voluto depotenziare i miracoli martellando sul fatto che essi sono semplicemente semeia, “segni”, come li chiama Giovanni; i miracoli indicano e mostrano una strada ma non sono dotati di un’intrinseca efficacia “prodigiosa” (cfr. al contrario At 2,22).
Ma perché mai dà fastidio che i miracoli possano trascendere le leggi naturali? Primo, perché ciò rimanda ad un Dio “onnipotente” al quale, proprio perché “onnipotente”, è il caso di togliere la camicia nera. Secondo, perché ai miracoli gli adulti non credono. Terzo, perché l’azione di Dio in questo modo sarebbe troppo impattante sulla libertà dell’individuo, estorcendogli l’assenso della fede (falso: cfr. Mt 28,17; CCC, 548).
6) Sul contenuto veritativo del cattolicesimo e sulla metafisica. I miei docenti hanno profuso molte energie nel tentativo di togliere alla Chiesa quella fastidiosa patina di superiorità che le deriva dal fatto di essere «colonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15). In questo senso gli interventi dei professori sono stati plurimi e variegati, ma comunque sistematici. La strategia apparentemente più innocua, ma cionondimeno assolutamente strutturale, persegue come primo obiettivo la de-ellenizzazione del cristianesimo, e cioè la volontà di purgare la fede cattolica di tutti quei termini e categorie di derivazione greca che la Chiesa vi ha instillato nel corso dei secoli.
Questo è davvero molto strano. In seminario ci hanno detto in tutte le salse che la Bibbia è uno straordinario testo multiculturale, nel quale confluisce la mitologia babilonese non meno dell’antica sapienza egizia; gli ebrei poi hanno assimilato durante i secoli molti elementi spuri da tutti i popoli confinanti. Questo è bello e deve essere valorizzato – dicevano −, la Parola di Dio riverbera come una polifonia tra varie culture e, come dice anche il salmista, la verità è sempre plurale: «Una parola ha detto Dio, due ne ho udite» (Sal 62,12). Epperò, l’unica cultura che non ha diritto teologico di cittadinanza è, stranamente, quella greca. Per lei i porti sono e rimangono chiusi, con buona pace della Fides et Ratio di san Giovanni Paolo II (§72). Il motivo è semplice: la cultura greca rimanda alla metafisica e metafisica significa fondamento veritativo dell’essere. Tolta la metafisica, si spalancano le porte ad un impianto teologico improntato al relativismo che tutto pone sullo stesso piano; si rinuncia così definitivamente al tentativo di far convergere analogicamente le differenze creaturali verso la verità divina, dalla quale esse sono precedute, fondate e misurate (reductio ad unum).
Non a caso nel seminario che ho frequentato la metafisica è stata completamente ostracizzata nei contenuti, anche se non proprio nella forma (esiste il corso di “Metafisica”, ma si parla d’altro). A lezione, e soprattutto agli esami, il lessico metafisico era vietato: sostanza, ontologia, essenza, accidente, potenza, atto, verità, natura, causa prima, ragione, volontà eccetera erano tutti termini che andavano sostituiti – così dicevano – con un nuovo vocabolario più esperienziale, personalista, fenomenologico ed ermeneutico (il che non è necessariamente da rigettare, ma tutto ciò deve poggiare sulla metafisica, non sostituirla). Il termine in assoluto più abusato, quello che scioglie ogni nodo teologico, è “relazione”. Ironicamente forse nemmeno il docente di Metafisica – che invero si vantava di averla studiata poco – sapeva che anche quel vocabolo, “relazione”, dall’aura così gradevolmente inclusiva, è utilizzato proprio da Aristotele nella sua Metafisica per denotare una delle dieci categorie dell’essere. E così, in seminario, la “relazione” diventa il contraltare dell’ “oggettività”: ciò che è oggettivo, infatti, è in sé e per sé vero universalmente, unico e identico per tutti, e può solo essere riconosciuto e contemplato come tale. All’interno della relazione, invece, c’è tutto lo spazio possibile per la fusione degli orizzonti e la negoziazione dei significati, etici e dogmatici (sic).
Glisserò su molte altre cose ma, almeno in parte, è giusto che vi trasmetta quello che anche io ho ricevuto.
– L’autore anonimo del IV vangelo potrebbe benissimo essere Giuda.
– «Minimo storico, massimo teologico!» (tanti meno fatti storici nella Bibbia, tanto maggiore l’auspicato spazio per l’interpretazione teologica).
– Gesù non ha fatto nessuna previsione, sono stati gli evangelisti che col senno di poi gli hanno messo in bocca previsione corrette.
– Gli evangelisti fanno nascere Gesù a Betlemme perché così aveva predetto Michea (Mi, 5,1).
– I vangeli dell’infanzia sono una proiezione teologica postpasquale che Matteo e Luca hanno elaborato per giustificare ex ante l’evento della resurrezione.
– Satana non esiste.
– La legge morale naturale non esiste.
Vi sono ancora molte altre cose che ho sentito in seminario e che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere.
Alberto