Cari amici di Duc in altum, la nostra incursione nei seminari continua oggi con la testimonianza di Vivus, pseudonimo scelto da un religioso che ci racconta la sua esperienza nel noviziato.
Ricordo che i precedenti interventi si possono leggere qui, qui, qui e qui .
Quanto alla mail che avevamo predisposto per far giungere i contributi, purtroppo è stata bloccata e poi, anche dopo il cambio di indirizzo, ribloccata. Forse c’è chi non gradisce che questa nostra inchiesta prosegua a esplorare il mondo dei seminari. Se così è, ringraziamo il misterioso hacker: la sua azione ci rende ancora più determinati ad andare avanti.
A.M.V.
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La Chiesa ha bisogno di educatori santi e solidi
Caro Aldo Maria, ho letto con molto interesse gli articoli che sta pubblicando sul suo blog circa i seminari, e anch’io, nel mio piccolo, vorrei portare un contributo in tal senso, ma non per sparare a zero contro i seminari e la formazione ecclesiastica. Vede, il problema che io intendo evidenziare è ben più datato del Concilio, ma – se un tempo almeno se ne parlava – ora semplicemente è ignorato.
Hanno certamente ragione quanti denunciano una mancanza di formazione teologica, centrata su ciò che la Chiesa dice e non su quanto il singolo professore pensa. Ma a questo problema si può facilmente porre un argine con le letture personali. Testi e autori certamente non mancano.
Sono entrato in un ordine religioso certamente non eterodosso. A una formazione dottrinale ben salda, corrispondeva tuttavia nel noviziato (il periodo più importante, nel quale si dovrebbe davvero formare il giovane che dovrà subito dopo fare la propria professione, per quanto temporanea) una totale assenza di accompagnamento spirituale. Pressoché assenti gli incontri con il padre maestro; inesistente la figura del padre spirituale.
L’idea di fondo – certo non inculcata esplicitamente, ma sottesa quasi come un non-detto ben più obbligante – era: vivi e lascia vivere. L’importante è mostrare e apparire. Dinanzi a qualche obiezione – “Cavoli! L’anno prossimo professerò povertà, castità e obbedienza!” – la risposta del maestro era: “Beh, ma sono voti semplici! Puoi sempre farli annuali e poi uscire o rinnovarli!”, sino al punto di essere rimandato all’autorità superiore quando certe questioni personali si imponevano prepotentemente nella mia coscienza.
Non mi si dica che è un caso isolato. Vedo ancora il terrore negli occhi di seminaristi diocesani, paurosi di aprirsi al direttore spirituale, su temi quali la liturgia, per il timore di non essere reputati idonei al sacerdozio. Sento ancora il rettore di un seminario sostenere che un certo giovane, il quale aveva osato organizzare una conferenza tenuta da un cardinale di Santa Romana Chiesa di impronta conservatrice, ma certamente cattolico, non era adatto al sacerdozio.
Forse ha ragione papa Francesco quando dice che il problema è il clericalismo: cioè un’educazione che tutto è fuorché educazione integrale. Si proclama a gran voce l’esigenza di essere sinceri e leali, ma quando un candidato lo è, viene etichettato come polemico a tutti i costi. Così facendo, è ovvio e logico che il candidato cambi natura e stile: entrato in seminario veramente sincero e volenteroso, col tempo, e per sopravvivere, diventa doppio e falso. È solo colpa del candidato? Non sono forse i superiori a farlo diventare così?
Il padre Radcliffe – peraltro portando avanti idee quantomeno discutibili – affermava quella che credo sia una verità. In riferimento ai seminaristi con tendenze omosessuali scriveva: “Se parlano apertamente, potranno non essere accettati. Ma se non parlano, daranno prova di una mancanza di trasparenza. C’è così il rischio che i più onesti abbandonino e i meno schietti restino, in modo che formeremmo preti immaturi”.
Ebbene, perché non prendere sul serio il pensiero di questo frate e applicarlo a tutte le situazioni che si verificano nei seminari? Il problema non è solo il modo scabroso di compiacere i superiori: è anche quel metodo più sottile che consiste nel dire solo quello che l’altro vuole sentirsi dire, così da non attirarsi le ire del formatore, tanto aperto e moderno da non voler avere problemi. Altrimenti diciamolo chiaramente: il seminario non è il tempo del discernimento (certo successivo rispetto a un discernimento fondamentale), ma solo il tempo dell’attesa dell’ordinazione sacerdotale. E altrettanto chiaramente aggiungiamo: nei centri di formazione entri solo chi è già sicuro di diventare sacerdote secondo lo schema dei formatori.
Un grande educatore del Novecento, che sarà poi tra gli estensori del decreto conciliare Optatam totius, scriveva: “Il seminario è anzitutto e soprattutto questione di persone. Sono i superiori buoni che formano seminari buoni: le regole e i fabbricati vengono dopo e a grande distanza. La forma di ogni sacerdote vero è solo Gesù Cristo, ma Gesù Cristo come vive in concreto nell’anima dell’educatore. Se vive in una forma decurtata, ingombra, imperfetta, evidentemente usciranno sacerdoti imperfetti, mancanti. Il problema del seminario è dunque il problema di uomini e la responsabilità del seminario è la responsabilità del corpo dei superiori e di ciascun superiore. Il novizio di prima liceo, che entra in seminario con una spiccata personalità fatta di freschezza religiosa, di ardenti ideali, di forti propositi, alla fine del primo anno non è più quello del principio, alla fine del secondo anno lo guardiamo quasi deluso. Perché? Non ha trovato modo di esprimersi, di svilupparsi secondo le sue native energie… S’è consegnato al tono e al clima dell’ambiente invece di conquistare il suo tono e il suo clima.”.
Da qui derivano molti dei problemi della Chiesa. Che, come può ben immaginare, ha bisogno innanzitutto di educatori santi e solidi, che formino a diventare come Gesù Cristo, e non come se stessi. Sono educatori rari. Dei quali, purtroppo, si avverte la mancanza.
Non mi permetto di giudicare un lavoro tra i più delicati, anzi mi è costato non poco scrivere queste righe. Tuttavia l’ho fatto come dovere di coscienza, nella certezza che anche il peggiore dei formatori ha nelle sue mani un potere grandissimo: generare santi sacerdoti o macchine, forse efficienti, ma totalmente inutili. Un compito immenso, del quale dovranno rendere conto al vero Pastore delle anime.
Vivus