Quella volta che progettarono la chiesa lunare

La luna improvvisamente è tornata di moda. Potenza dell’eclissi e degli anniversari. A cinquant’anni dallo sbarco dell’uomo sul nostro satellite, è tutto un ricordare e discettare di allunaggi e missioni spaziali. Cose che da un bel po’ di tempo non appassionavano più.

In cinquant’anni la pallida luna è rimasta uguale a se stessa. Quelli che sono cambiati sono i terrestri

Sulla rivista America c’è un’interessante rievocazione di quella volta che qualcuno progettò una cappella da costruire sulla luna.

Come ben sappiamo, non se ne fece niente, anche perché la luna si dimostrò tanto inospitale, e alla fine tanto inutile a scopo di colonizzazione, da scoraggiare qualunque progetto di base permanente. Tuttavia rievocare quel progetto ci aiuta a tornare in un’epoca che, al contrario della presente, era ancora capace di sognare a occhi aperti.

Gli anni Sessanta, quelli della guerra fredda e dalla gara Usa-Urss per arrivare per primi sulla luna, furono anche, sottolinea la rivista dei gesuiti americani, anni di grande creatività teologica. E quando la tecnologia fece capire che sbarcare sulla luna sarebbe stato non solo auspicabile ma possibile, la frase di Giovenale fatta propria dai gesuiti, Unus non sufficit orbis, acquistò una sua concretezza senza precedenti. Sì, un mondo non è abbastanza quando si è infiammati di fervore missionario. E allora perché non la luna?

Nel 1967 il New York Times Magazine pubblica un articolo, Moon Colony 2000 AD, nel quale il celeberrimo maestro di fantascienza Isaac Asimov spiega ciò che una colonia lunare dovrebbe essere, cappella compresa.

E da quel progetto (dove tutto si sviluppa sottoterra, anzi sottoluna) un padre oratoriano, Terence J. Mangan, prende spunto per immaginare una chiesa per coloni lunari: una specie di tenda che mostra in superficie soltanto il vertice, come un occhio in mezzo ai crateri.

“Integrare la fede e la scienza del colono lunare, per sintetizzare la sua visione dell’universo con la sua visione di Dio e di se stesso”: questo lo scopo della chiesa lunare, secondo l’ambizioso, e fantasioso, padre Mangan, il quale affida il compito di dettagliare il progetto all’architetto Mark Mills (morto nel 2007), allievo di Frank Lloyd Wright.

Nasce così la Doman Moon Chapel di Mills, che ha veramente l’aspetto di una tenda interamente sotterranea (o sottolunare), tranne per l’occhio che sta al vertice. Ma l’architetto non pensa solamente a un luogo di culto. Lui immagina una vera e propria parrocchia, con alloggi destinati a sei preti oratoriani e la possibilità di ampliare le aree per farle diventare spazi di incontro per “consulenza e aiuto alle persone sotto stress”.

Nel progetto di chiesa lunare non manca niente: c’è l’altare, l’ambone, la sedia per il celebrante e i ci sono i sedili per gli altri eventuali concelebranti. Il soffitto è ricoperto da un giardino terrazzato, la cui funzione, oltre che estetica, è di attutire i rumori provenienti dalle altre zone della colonia.

Ma che cosa fare in una chiesa lunare? Esattamente quello che si farebbe in una chiesa terrestre. Siamo nei ruggenti anni del post-concilio, dunque, “ovviamente”, in una chiesa si canta e si danza, magari si raccontano anche le esperienze vissute nella colonia, e poi si fa “scrittura creativa, poesia, musica”, e si realizzano “forme di espressione visiva”.

Sulla rivista Liturgical Arts il reverendo Clifford Stevens, cappellano della US Air Force, dice che i sacerdoti saranno fondamentali per qualsiasi sforzo di colonizzazione della luna. “Essi erano con Colombo e Magellano per quei viaggi nell’ignoto, e anche con i Vichinghi, quando esploravano l’oceano occidentale. L’uomo si trova ora sulla soglia di una scoperta molto più mozzafiato, e quindi non è inadeguato per il teologo, simbolicamente o meno, indossare una tuta spaziale”.

Il prete dunque “abiterà la sua cappella ai margini dello spazio e aiuterà ad aprire le porte a una dimensione completamente nuova dell’esistenza umana”. Inoltre, spiega l’entusiasta padre Stevens, i preti avranno un ruolo cruciale nel garantire che l’esplorazione dello spazio sia una questione non semplicemente di conquista materiale, ma di crescita spirituale per tutta l’umanità.

Ironia della sorte, scrive America, la cappella sulla luna divenne quasi un modello per le chiese cattoliche terrestri negli ani successivi al Concilio. Luoghi non solo e non tanto di preghiera, ma “di passaggio, accoglienza, opportunità, ospitalità, trasformazione, guarigione, perdono, unità, luce, suono e memoria”.

Fatto sta che la cattedrale di St. Mary a San Francisco ha una sorprendente somiglianza con alcune delle idee di Mark Mills per la cappella lunare.

Ma anche noi italiani certamente abbiamo visto qualche chiesa del genere, catapultata sulla terra da architetti lunatici, più che lunari, che hanno scambiato le nostre periferie per spazi intergalattici.

C’è solo da precisare che la chiesa lunare, essendo sotterranea (o sottolunare), e quindi (almeno all’esterno) invisibile, poteva anche permettersi di essere brutta. Le nostre, invece, purtroppo si vedono.

Aldo Maria Valli

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