La rinuncia di Benedetto XVI tra Codice di diritto canonico e Vangelo
Cari amici di Duc in altum, la disputatio tra don Andrea Maggi e padre Gabriele Rossi sulla rinuncia di Benedetto XVI al pontificato vive oggi una nuova puntata.
Dopo che ho raccontato la storia di don Maggi (qui) e padre Rossi ha risposto (qui), don Andrea è intervenuto nuovamente (qui) e adesso padre Rossi a sua volta replica.
Nel frattempo però don Andrea, anche su sollecitazione di moltissimi lettori del blog, si è reso conto di aver commesso un errore quando ha sostenuto che il Codice di diritto canonico del 1917 non prevedeva la rinuncia al pontificato.
Oggi dunque vi propongo due interventi: la riflessione con la quale padre Rossi, rispondendo a don Andrea, pone a sua volta alcune questioni di fondo, e la lettera che don Andrea mi ha inviato scusandosi per l’errore ma, nello stesso tempo, ribadendo che il problema sussiste dal punto di vista teologico.
Buona lettura!
A.M.V.
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Padre Rossi: “Ecco le vere domande sulla rinuncia di Benedetto XVI”
Carissimo don Andrea, mi sembra che con la sua risposta del 30 luglio scorso lei abbia sollevato una serie di problemi teologici e giuridici così complessi che per rispondere servirebbe un prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.
Visto poi che le nostre valutazioni sulla rinuncia di Benedetto XVI rimangono ancora distanti, mi limiterò ad alcune osservazioni molto semplici. Spero di ottenere la sua benevola comprensione, così come io le concedo volentieri la mia.
Una possibilità prevista
In primo luogo vorrei far notare che anche il Codice di diritto canonico del 1917 – da lei più volte citato come testo più affidabile rispetto al Codice attuale – prevedeva espressamente la possibilità che un Papa potesse dimettersi dal suo ufficio: e ciò al can. 221. Questa stessa norma poi sta alla base del can. 332 § 2 del Codice del 1983.
Ma oltre a queste disposizioni scritte c’è la storia stessa della Chiesa, la quale ci dice – senza tema di smentita – che diversi Papi (almeno sette casi certi, insieme con quello di Benedetto XVI?) hanno dapprima accettato l’incarico di sommo Pontefice e poi lo hanno abbandonato: il tutto con una loro decisione libera e sovrana.
Valga per tutti l’esempio di san Celestino V (fra Pietro da Morrone) che è stato Papa solamente per tre mesi e mezzo nel 1294: questi, dopo la sua rinuncia, non solo non è stato cancellato dall’albo dei successori di Simon Pietro (e neppure sono stati cancellati gli altri Papi dimissionari), ma è stato addirittura canonizzato.
Mi permetto di ricordare che il pontificato non è un sacramento, ma un ufficio ecclesiastico: e, come tutti gli uffici ecclesiastici, può essere accettato o rifiutato (e in casi particolari se ne può anche essere privati). Ovviamente, affinché uno possa rinunciare a un ufficio precedentemente assunto, occorrono cause molto gravi, specie per quell’incarico che sta al vertice di tutta la vita della Chiesa. E il giudizio morale, sulla sufficienza o meno delle cause soggettive o oggettive addotte, spetta soltanto a Dio.
Mi sembra che l’eventuale rinuncia di un singolo Papa non arrivi a scalfire il valore delle parole di Gesù a Simone: «E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18), perché esse si riferiscono alla persona di Simon Pietro e a ciascuno dei suoi legittimi successori lungo i secoli. Sappiamo infatti che la “pietra stabile” su cui poggia la nostra fede è, a livello spirituale ed essenziale, lo stesso Signore Gesù, Pastore supremo delle nostre anime; e che la figura del Papa di turno interviene soltanto a livello visibile e rappresentativo (non importa chi esso sia: basta che sia veramente legittimo e che sia docile al soffio dello Spirito).
Un requisito fondamentale
In secondo luogo vorrei far notare che, nelle norme relative alla rinuncia dall’ufficio ecclesiastico (papato compreso), entrambi i Codici di diritto canonico si preoccupano in particolare di un requisito fondamentale: quello della sufficiente libertà personale nel prendere una simile decisione. Ecco i canoni in questione:
«La rinunzia [da qualsiasi ufficio] fatta per timore grave incusso ingiustamente […] è nulla ipso iure» (CIC/1983, can. 188; identico a CIC/1917, can. 185).
«Nel caso che il Romano Pontefice rinunzi al suo ufficio, per la validità si richiede che la rinunzia sia fatta liberamente e sia debitamente manifestata, ma non che sia accettata da alcuno» (CIC/1983, can. 332 § 2; simile a CIC/1917, can. 221).
La rinuncia dal Papato dunque è prevista ed è stata di fatto attuata più volte nel corso della storia della Chiesa.
Ora, nel caso di Benedetto XVI il problema è duplice: 1) capire fino a che punto le sue dimissioni siano state veramente libere o, piuttosto, gravemente condizionate; 2) capire per quale ragione egli ha adottato una forma atipica di rinuncia (distinguendo tra esercizio attivo e contemplativo del munus petrino), tale che non può essere facilmente equiparata agli altri precedenti della storia.
Un’ipotesi da verificare
Carissimo don Andrea, non voglio qui ripetere quanto ho cercato di spiegare nel precedente post del 23 luglio scorso, né voglio insistere con lei più di tanto, anche perché sono perfettamente cosciente che l’eventuale forzatura invalidante delle dimissioni di Papa Benedetto rimane ancora una semplice ipotesi di lavoro, la quale potrà essere verificata in modo adeguato soltanto quando gli attuali protagonisti della scena ecclesiale saranno passati nel Regno dei più. Credo infatti che il noto principio giuridico “nemo iudex in causa propria” si applichi anche ai grandi eventi del 2013.
Per dipanare la matassa quindi bisognerà aspettare che la storia abbia voltato pagina completamente e definitivamente: soltanto allora un nuovo Pontefice potrà dire qualcosa di sicuro e di definitivo. In questo senso non condivido affatto la frenesia di coloro che pretenderebbero da Benedetto XVI chissà quali rivelazioni e quali colpi di scena. Sarà il tempo a fare chiarezza in maniera lenta e inesorabile: e lo farà in piena sintonia con i messaggi di Fatima, che prima o poi diventeranno chiari per tutti.
Nel frattempo, però, l’ipotesi di una possibile invalidità della rinuncia di Benedetto XVI può aiutare moltissimo a decifrare gli avvenimenti in corso e a decidere la strada da seguire, anche perché – grazie al Cielo – il Santo Padre non si sottrae a lanciare di tanto in tanto dei segnali molto chiari a quanti ancora volgono lo sguardo verso di lui; e quando non lo fa di persona, ci pensano altri Prelati a lui vicini.
La vera sfida in atto
Carissimo don Andrea, le confesso sinceramente che prendere parte a queste discussioni sull’attuale situazione della Chiesa è oltremodo doloroso e lacerante; ma ormai ritengo che sia un preciso dovere farlo, non tanto per parteggiare per un Papa o per un altro (ciò sarebbe la cosa più sciocca di questo mondo), ma per prendere una posizione chiara in rapporto al vero problema del momento presente: quello della difesa della Verità cattolica a livello di dottrina, di morale e di liturgia, di fronte alla grande apostasia che, dal vertice, si sta estendendo con metodi spesso da dittatura militare latino-americana a tutti i livelli e in tutti gli angoli della Chiesa.
Questa è la vera sfida in atto: sfida davanti alla quale nessun cattolico può tirarsi indietro, specie se si tratta di ministro sacro o di persona consacrata; e sfida davanti alla quale non bisogna perdersi in critiche istintive e superficiali verso i prelati che già si trovano in prima fila, ma occorre rimanere uniti e compatti almeno sull’essenziale (cioè sui contenuti del Catechismo della Chiesa cattolica di Giovanni Paolo II).
Ho timore che a breve si ripeterà per la Chiesa ciò che più volte è accaduto al popolo eletto nel testo sacro: o ci si arrende alla forza della logica (la logica della rivelazione di Dio, la logica della predicazione dei profeti, la logica dei richiami della coscienza…), oppure ci si deve arrendere alla logica della forza (la forza delle invasioni, la forza delle deportazioni, la forza delle tribolazioni fisiche e morali…).
Non le sembra che qualcosa del genere stia già accadendo attorno a noi?
Carissimo don Andrea, la ringrazio comunque e la saluto cordialmente.
Padre Gabriele Rossi, FAM
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Don Maggi: “Mi scuso per l’errore, ma il problema teologico resta”
Caro dottor Valli, il Signore sia con lei. Grazie a tutti coloro che hanno giustamente evidenziato il madornale errore giuridico (ma non teologico) che ho commesso quando ho affermato che il codice Gasparri del 1917 non prevedeva la rinuncia del papa, mentre, al contrario, il can. 221 era molto chiaro in proposito. Chiedo dunque scusa a tutti coloro che seguono il suo blog.
Ribadisco, tuttavia, che il problema teologico e dogmatico rimane per me inalterato. Mi chiedo: per Gesù Cristo il ministero petrino è perenne, fino alla morte, oppure no?
Non mi importa da quanti secoli una certa regola canonica è accettata. A me preoccupa il fatto che un errore teologico, quando si insinua nella Chiesa, non se ne va tanto facilmente e diventa così proliferativo.
I canonisti hanno pienamente ragione nel sostenere che la rinuncia è ammessa. Ma a noi che cosa deve stare più a cuore? Il Codice di diritto canonico o il Vangelo? Io sono caduto in errore dal punto di vista canonico, ma voglio restare fedele al Vangelo.
D’altra parte penso che quasi tutti i pontefici, da Celestino V in poi, sono saliti al soglio con la volontà di non dimettersi mai.
Encomiabile, per esempio, fu Pio VII, il quale, pur prigioniero di Napoleone per circa cinque anni, non rassegnò mai le dimissioni e alla sua liberazione fu accolto da folle esultanti. Se la Chiesa è saldamente fondata su così stabile roccia, non ha nulla da temere. I problemi nascono quando invece il pontificato è considerato una funzione che può essere a tempo determinato, a seconda della volontà umana.
Ogni battezzato è libero di pensarla come vuole. Io voglio che il ministero petrino sia perenne, perché una Chiesa ancorato su un papa dimissionabile e ricattabile non mi sembra più la Chiesa cattolica, ma una Chiesa molto più simile a quelle che non riconoscono il papa.
I cardinali che sostenevano l’invalidità delle dimissioni di Celestino V e quindi l’invalidità dell’elezione di Bonifacio VIII furono scomunicati e i loro beni confiscati. Il tutto per instaurare il nuovo regime più favorevole a Bonifacio e quindi il papato inteso come funzione legata alla volontà umana e non a inmitazione di Pietro.
Ripeto la domanda: vogliamo un papato come lo vuole Cristo o come fa comodo agli uomini? E Cristo come giudica i successori di Pietro che, anziché restare al loro posto fino alla morte, si scambiano il trono? Quale Chiesa avremo quando sarà possibile ritrovarci con due o tre o quattro papi in vita?
Don Andrea Maggi