Gimondi, le biglie e noi bambini del boom

“È morto Gimondi”. La voce del caporedattore tradisce la tristezza. Noi che abbiamo una certa età sappiamo. Certe notizie è come se spegnessero una luce.

C’è un telegiornale da fare, bisogna organizzare. Si va avanti per dovere, ma inutile nasconderlo: noi che abbiamo una certa età ci sentiamo strani. Perché certi miti della nostra infanzia siamo abituati a considerarli immortali, e Gimondi era tra questi.

Io veramente tifavo per Motta. Mi stuzzicava di più, era un po’ matto. Gimondi mi sembrava fin troppo serio, fin troppo silenzioso e riservato. Ma certamente tra Gimondi e Merckx il Cannibale stavo con Gimondi.

Milano, palasport di San Siro (quello che poi crollerà miseramente sotto la nevicata del 1985). Ho dieci anni. Mio papà mi porta alla Sei Giorni, la grande competizione su pista. Riflettori, colori, passione. I corridori inanellano giri su giri e io sgrano gli occhi. Finora li ho visti raffigurati dentro le biglie di plastica, che noi bambini utilizziamo per le sfide sulla spiaggia. Ed ora eccoli qua: niente biglie, sono proprio loro! E Gimondi e Motta sono i due grandi avversari. Vince Motta ed è una serata indimenticabile, in compagnia di un papà che lavora sempre e raramente ha tempo da condividere con me.

Gimondi perde in pista, almeno quella sera, ma vince tantissimo su strada. Merckx vince ancora di più, ma pazienza. La sfida è bella. E Gimondi, per noi italiani, è la speranza.

In un giorno di maggio il Giro d’Italia passa dalla mia città e vado sullo stradone a vedere i corridori. Aspetto e aspetto. Poi ecco le motociclette. Poi ecco l’auto del direttore, un signore che sta sempre in piedi, con la testa  fuori dal tetto e il vento che gli scompiglia i capelli. Poi ecco laggiù, tremolante, il gruppone. Si avvicina. È un attimo. Le bici scorrono davanti a noi in un soffio. Cerco il biondo Motta ma non distinguo nemmeno un corridore. Quello che svanisce in una manciata di secondi è un arcobaleno di magliette. Il ronzio degli ingranaggi è magico. Davanti abbiamo uno sciame di sogni. Poi arrivano la macchine con le bici sopra (chissà perché le chiamano ammiraglie) e tutto è già finito.

Per il Giro numero cinquantacinque, anno 1973, vado a Milano, in piazza del Duomo. È il gran finale. Vince il solito Merckx. Gimondi è solo ottavo. Motta ha vinto la seconda tappa, tutta pianeggiante, poi più niente.  Vabbè, non si può avere tutto. Comunque la festa è bella.

Poi siamo diventati grandi. Poi i ciclisti hanno tolto il capellino da muratori e hanno indossato i caschetti protettivi. Poi le bici sono diventate più leggere ma anche meno belle. Poi il ciclismo ci ha fatti disamorare a causa del doping. Poi siamo tornati a seguirlo perché come si fa a non vedere il Giro e il Tour.

Comunque, per me, Gimondi, Motta, Merckx, Poulidor, Anquetil, Zoetemelk (Lattemiele), Balmamion (che nomi!), Adorni, Zilioli, Bitossi restano figurine dentro le biglie.  Sulla pista di sabbia (fatta trascinando uno di noi in modo che con il didietro tracci la strada) io naturalmente cerco sempre di avere Motta, ma se mi capita Gimondi non è che mi lamento. L’importante è non avere il Cannibale. La gara con le biglie arriva dopo la partita di calcio. Se prima sono stato Facchetti, adesso eccomi sotto forma di Motta. L’amichetto che prima continuava a dire “Io sono Moschino del Torino” adesso è l’olandese Lattemiele. Uno stecco del ghiacciolo segna il traguardo. Le biglie corrono. Moschino del Torino si lamenta, dice che Motta ha tagliato una curva.

Eccoci in gruppo, noi bambini, figli del boom. E Gimondi è lì, dalla nostra parte. Perché se c’è uno che può battere il Cannibale, quello è lui. E allora perché non affidargli i nostri sogni?

Aldo Maria Valli  

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