Dopo che la Corte suprema americana ha stabilito che gli studenti transgender possono scegliere di utilizzare la toilette pubblica che preferiscono, ora il nuovo fronte aperto riguarda i dormitori universitari.
Gruppi studenteschi dell’Università di Notre Dame (ateneo cattolico) sostengono infatti che la tradizione dei dormitori divisi per sesso è espressione di “eteronormatività” e che, come tale, va superata.
Elizabeth Boyle, che a nome degli studenti sta cercando di porre fine ai dormitori separati e al divieto di andare nei dormitori del sesso opposto, argomenta che questa pratica, in quanto conseguenza di una visione del mondo secondo la quale l’eterosessualità è l’orientamento sessuale normale, è discriminante e va abolita.
In un articolo scritto per il giornale del campus Elizabeth Boyle dice che per gli studenti Lgbt i dormitori di Notre Dame potrebbero essere “spazi troppo eteronormativi e non sicuri”. Inoltre in un video distribuito dall’università il vicepresidente del club Lgbt, Taz Bashir, dichiara: “Notre Dame dovrebbe abbracciare gli studenti Lgbt in virtù della nostra fede cattolica, non malgrado ciò”. Secondo Bashir l’organizzazione dei dormitori durante i fine settimana di benvenuto nel campus dovrebbe essere “meno eteronormativa”.
LifeSiteNews ha cercato di saperne di più interpellando il Consiglio degli studenti, ma per ora non ha ricevuto risposta.
A giudizio di Elizabeth Boyle avere dormitori per soli uomini e sole donne nel campus contribuisce all’eteronormatività in un modo inaccettabile e gli studenti transgender hanno il diritto di scegliere liberamente in quali dormitori risiedere.
Proprio per combattere l’eteronormatività (secondo l’Oxford Dictionary con questo termine si intende appunto la visione di chi promuove l’eterosessualità come l’orientamento sessuale normale o preferito) Boyle e gli altri membri dell’associazione degli studenti hanno distribuito spille e adesivi ai docenti e agli assistenti degli studenti con l’obiettivo di chiedere “inclusività” e proclamare che “tutti sono benvenuti”.
La lotta alla eteronormatività, ribatte l’avvocato William Dempsey, in realtà non è altro che un aspetto della campagna per normalizzare l’omosessualità e i cambi di genere. “Si tratta di una vera e propria epidemia che colpisce i campus universitari, ma non dovrebbe trovare casa a Notre Dame, perché si scontra frontalmente con l’insegnamento della Chiesa cattolica”.
Presidente del Sycamore Trust, gruppo di ex alunni di Notre Dame che si battono perché l’ateneo torni ai valori cattolici, Dempsey osserva: “Le proposte degli studenti sono così estreme che sembra improbabile che possano trovare realizzazione, ma intanto l’amministrazione continua a mantenere il silenzio circa il fatto che per il Catechismo della Chiesa cattolica l’omosessualità è intrinsecamente disordinata”.
È da centosettantasette anni che Notre Dame gestisce dormitori separati per sesso, ma ora, scrive Elizabeth Boyle, è venuto il momento di cambiare.
Su The College Fix, la testata che riporta la notizia della presa di posizione di Elizabeth Boyle, sono numerosi gli articoli che si occupano della questione transgender. Tra gli altri ce n’è uno che racconta di come in “una conferenza transgender” dal titolo Thinking Beyond: Transversal Transfeminisms, all’Università di Roehampton, nel Regno Unito, sia stato usato “un sistema di badge in stile semaforo per garantire uno spazio sicuro ai partecipanti”. Indossare un badge verde indicava la volontà di parlare con chiunque, un badge giallo significava invece “mi avvicinerò a te solo se desidero parlare”, mentre uno rosso voleva dire “non desidero parlare con altri delegati”.
I partecipanti non erano vincolati dall’uso di un colore particolare per l’intera conferenza, ma lo potevano cambiare a piacimento a seconda di come si sentivano in un particolare momento.
La conferenza è stata presentata come una risposta a “una serie di attacchi contro le esperienze e le identità delle persone trans”, ma il sistema di badge a semaforo a quanto pare non ha funzionato bene e un professore di Sociologia dell’Università di Oxford, Michale Biggs, ha detto che tali iniziative in realtà servono solo ad alimentare le fragilità e a far passare l’idea che anche una conversazione intellettuale possa essere una minaccia per la sicurezza delle persone.
A.M.V.