Cari amici di Duc in altum, vi invito a leggere questa bella intervista di Gianfranco Amato a Jonas Marcolino Macuxi, indigeno amazzonico rappresentante della popolazione macuxi.
Le risposte dell’avvocato Macuxi fanno capire bene la colossale strumentalizzazione degli indios in corso da parte di molti ambienti, fra i quali, purtroppo, anche gli attuali vertici della Chiesa cattolica.
A.M.V.
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Mai come ora circolano falsi miti e autentiche menzogne sulla condizione dei popoli indigeni dell’Amazzonia e sulle rispettive rivendicazioni. Forse la cosa più corretta e intelligente da fare sarebbe ascoltare la voce dei diretti interessati. Senza la mediazione strumentale di alcuni megafoni.
Abbiamo la fortuna di poterlo fare attraverso un autorevole e qualificato esponente di quelle popolazioni. Si tratta di un avvocato brasiliano, Jonas Marcolino Macuxi, indigeno amazzonico rappresentante della popolazione macuxi, presente in questi giorni a Roma per un convegno organizzato dall’Istituto Plinio Corrêa de Oliveira.
Quello che ha da dirci merita di essere ascoltato attentamente, perché rappresenta la migliore risposta a tutti coloro che, religiosi inclusi, vorrebbero gli indigeni dell’Amazzonia forzatamente segregati in un’apartheid culturale e confinati in uno zoo umano, come oggetto di studio da parte di antropologi oppure come attrazione turistica di borghesi affamati di emozioni e nostalgici del buon selvaggio di Rousseau.
Chi è Jonas Marcolino Macuxi?
Sono un indigeno dell’etnia macuxi e vivo nella terra amazzonica di Raposa Serra do Sol. Fino a diciotto anni io vivevo in una estrema indigenza quasi primitiva, cacciando e pescando. Sebbene figlio di genitori analfabeti, ho avuto però l’opportunità di studiare diventando prima professore di matematica e poi avvocato, dopo aver ottenuto una laurea in giurisprudenza.
Quali sono le istanze che, in qualità di rappresentate del popolo macuxi, tu esprimi a livello pubblico e che caratterizzano l’azione politica della tua leadership?
Nel 2008, a un convegno che si svolgeva nella città di San Paolo, intitolato Amazzonia, sovranità minacciata: inganno o realtà, io, a nome della popolazione indigena che rappresentavo, dichiarai di essere assolutamente contrario alla ghettizzazione in una riserva. Ci sono circa dodicimila macuxi a Raposa Serra do Sol, e quelli che si oppongono alla ghettizzazione rappresentano il 70 per cento della popolazione indigena. Nonostante fossimo la maggioranza non fummo ascoltati né dall’allora governo socialista del Partito dei lavoratori, né dai giudici della Suprema Corte.
Da cosa nasce questa opposizione a vivere secondo le tradizioni ancestrali a contatto diretto con quella che oggi molti amano chiamare “Madre Natura”, isolati e lontani dal “mondo corrotto” della civilizzazione bianca?
Noi siamo e vogliamo vivere con i confort della civiltà, usare l’energia elettrica, l’automobile, l’autobus e abbiamo villaggi dove ci sono attività produttive. Rivendichiamo il diritto di avere accesso a questi strumenti della civilizzazione e di poter progredire.
Eppure, vogliono proprio mantenervi immuni dal progresso nel vostro Eden allo stato del “buon selvaggio” di Jean-Jaques Rosseau…
Il problema è che qualcuno pensa che la gente possa ancora vivere come nell’età della pietra. Ritengono che nel XXI secolo ci siano ancora persone che possano sopravvivere cacciando e pescando. Si tratta di una vera e propria imposizione. La politica del FUNAI (Fundação Nacional do Indio) proibisce espressamente l’accesso allo sviluppo. E questa politica vorrebbe condannarci a vivere in un passato primitivo.
Come e quando sono giunto il progresso e la cultura in Amazzonia?
Nel corso di secoli Ii Amazzonia è arrivato un po’ di tutto: esploratori, avventurieri, pirati, missionari, naturalisti, botanici, zoologhi, etnologhi, antropologhi e scienziati. Molti erano gli studiosi che vedevano l’opportunità e la possibilità di offrire un nuovo stile di vita agli indigeni. Tutto questo processo di incontri con culture diverse ha consentito, in realtà, un interscambio e una parziale fusione con tradizioni, comportamenti e sentimenti differenti rispetto alla identità indigena. Si è trattato di un processo naturale e non imposto.
Quando sono cominciati allora i guai?
Disgraziatamente il frutto fecondo di questo processo di interscambio culturale fu avvelenato dai missionari della cosiddetta “teologia della liberazione”, da alcuni membri di movimenti ecologisti e ambientalisti, nonché da alcune ONG, che con il pretesto di tutelare i poveri indigeni hanno in realtà raccolto ingenti somme di denaro, più per interessi propri e dei propri finanziatori piuttosto che per i nativi dell’Amazzonia. Le influenze esterne sono state davvero moltissime.
È a partire dalla metà del XX secolo che entrano in scena molti sostenitori degli indios, i cosiddetti “indigenisti”, religiosi e civili, politici e ONG sia nazionali che internazionali.
Hai parlato di “teologia della liberazione”, concetto che è tornato alla ribalta delle cronache, anche per il Sinodo sull’Amazzonia che si è appena aperto in Vaticano. Puoi spiegarci meglio come questo fenomeno teologico abbia potuto influire negativamente e quali siano stati i suoi effetti nefasti?
Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso l’azione missionaria in Amazzonia cambiò radicalmente rispetto al passato, adeguandosi subito alla nuova prospettiva generata dall’aggiornamento conciliare della Chiesa cattolica, e profeticamente denunciata nell’opera che Plinio Corrêa de Oliveria pubblicherà nel 1977 col titolo: Tribalismo indigeno, ideale comune missionario per il Brasile del XXI secolo. Questi nuovi missionari lavorarono alacremente per realizzare proprio il falso ideale descritto da Corrêa de Oliveira, ovvero l’idea assurda di «tornare al passato utilizzando l’aborigeno come modello».
Voi contestate questo modello?
Noi indigeni non intendiamo affatto tornare al passato. Noi vogliamo godere di tutte le libertà e di tutti i diritti umani fondamentali, inalienabili e indispensabili per garantire una piena dignità umana. Migliaia di indigeni sono già pienamente integrati nella civilizzazione universale, non vivono più nell’età della pietra e non praticano il cannibalismo. Le pochissime tribù che ancora oggi praticano l’infanticidio in Brasile lo fanno perché la legge glielo consente ritenendo tale barbara pratica espressione di una tradizione culturale, in totale spregio del diritto inviolabile alla vita, alla libertà, alla sicurezza e alla dignità.
Molti comportamenti degli indigeni dell’Amazzonia come camminare a piedi percorrendo lunghe distanze, caricare la manioca sul carro, portare la legna sulle spalle o le balle di paglia sulla testa, e cose simili, oggi sono dettati dalla necessità di sopravvivenza e non da una tradizione culturale.
Torniamo un attimo ai missionari della “teologia della liberazione”. Alcuni hanno visto in essa un indubbio influsso politico. È stato così?
Come dicevo, i problemi sono cominciati agli inizia circa degli anni Settanta, proprio con i missionari della teologia della liberazione. Questi arrivarono persino a infrangere le leggi di Dio legittimando il furto della proprietà privata, attraverso l’incitazione a occupare illegittimamente le terre e le aziende dei non indigeni. Questa teologia della liberazione non era null’altro che una forma camuffata dell’ideologia comunista.
In poco tempo arrivarono a distruggere tutto quello che i loro predecessori missionari avevano costruito nel corso un secolo, in nome di un assurdo primitivismo. Non ci misero davvero molto a smantellare la prosperità che gli indigeni integrati avevano raggiunto attraverso un sistema basato sulla libertà economica, sulla proprietà privata, sull’economia di mercato e sulla libertà di lavoro.
Utilizzarono, poi, anche la tecnica della divisione dei villaggi, per creare comunità sempre più piccole in territori sempre più vasti, determinando, tra l’altro, anche la scomparsa delle piccole aziende agricole.
Alla fine, comunque, l’esperimento fallì.
Fu instillata l’utopia comunista che sognava la realizzazione di una società senza padroni e sottoposti, in cui i beni sono proprietà comune. Ma, come sosteneva Winston Churchill, «se il vizio insito nel capitalismo è la ineguale distribuzione della ricchezza, la virtù insita nel comunismo è la uguale distribuzione della miseria».
Come ho detto, fu proprio l’indottrinamento ideologico di questi religiosi che indusse gli indigeni a rubare, ad usare violenza e persino uccidere i proprietari terrieri, a odiare “il bianco” che non fosse un missionario, a invadere la proprietà privata, a non accettare l’energia elettrica, le strade, la legge, l’esercito, e così via. Fino al punto di odiare i propri familiari.
Ci sono persone tra noi che ancora oggi si chiedono come sia stato possibile giungere fino al punto di considerare come un nemico il proprio fratello, il proprio padre, il proprio cognato. Dividere le persone è un’azione tipicamente satanica.
Molti contestano il fatto che il progresso e la civilizzazione siano stati il frutto di una imposizione culturale che ha cancellato l’identità e le tradizioni del popolo amazzonico.
Lo ripeto. Il processo di integrazione tra indigeni e bianchi non è affatto avvenuto per imposizione. Nella prima metà del XX secolo i missionari portavano l’annuncio del Vangelo, impartivano i sacramenti battezzando, sposando e celebrando la messa, ma parlavano perfettamente la lingua macuxi, partecipavano alle feste locali, e aiutavano gli indigeni nei lavori agricoli. Fu grazie a quei missionari che arrivarono gli ospedali e le scuole, le quali garantirono a molti indigeni la possibilità di laurearsi e di esprimere così le proprie potenzialità capacità.
Ha un che di razzista l’idea che un indigeno dell’Amazzonia per difendere la propria identità culturale debba continuare a vivere in una dimensione esistenziale primitiva, una sorta di “zoo umano”, e non possa diventare avvocato come me.
Dicono anche che il progresso non deve varcare le soglie della foresta per tutelare l’Amazzonia in quanto bene dell’umanità. Costringere degli uomini e delle donne a vivere da selvaggi è forse il prezzo che si deve pagare per questa tutela ambientale? E voi indigeni integrati non avete a cuore la vostra terra?
Noi indigeni, e abitanti dell’Amazzonia in generale, amiamo questo immenso territorio che difendiamo a spada tratta, perché, comunque sia, da tutte le sue risorse idriche e minerali, dal suo bioma dipende la nostra vita e quella delle nostre future generazioni. Ma occorre anche avere uno spirito altruista e dare agli indigeni la possibilità di usufruire di un’educazione tecnica, scientifica, umanistica di qualità, una libertà economica, una sicurezza sociale, la pace e l’armonia per garantire un presente ed un futuro sicuro all’insegna del progresso.
È vero, però, che ci sono stati anche indigeni che hanno rifiutato il progresso.
In realtà non si è trattato di popolazioni ma di singoli leader ideologizzati molto spesso strumentalizzati dalla politica. Noi abbiamo reagito organizzandoci dal basso. Faccio un esempio.
Nel 1993 la Comunità indigena di Contâo utilizzava già l’energia elettrica, l’acqua corrente e persino un’antenna parabolica comunitaria. In quello stesso anno ricevetti un documento sottoscritto dai capi villaggio e leader della comunità indigena di Surumu, in cui gli stessi affermavano di essere contro i bianchi e i politici, contro le strade, l’energia elettrica, l’esercito e le bevande alcoliche. Noi, indigeni che godevamo del benessere dovuto a quelle cose da più di cinque anni, non abbiamo potuto stare zitti. Nel settembre dello stesso anno 1993, decidemmo, quindi, di costituire la Società di Difesa degli Indigeni Uniti di Raraima-SODIURR, per promuovere lo sviluppo socio-economico e culturale delle nostre comunità.
Comunque, questa politica di divisione e isolamento degli indigeni veniva attuata praticamente in tutto il Brasile.
Oggi ci sono ancora tracce di questa politica?
Fortunatamente si tratta di pochi casi, ma ci sono. Penso, ad esempio, ad alcuni indigeni come gli yanomani e i waimiri-atroari. Ma questi nativi nelle riserve non sono affatto liberi, sono controllati dagli “indigenisti” che godono di privilegi a discapito degli stessi indigeni.
In che senso non sono liberi?
Ho potuto verificare personalmente la mancanza di libertà quando io e altri due macuxi abbiamo tentato di andare a vivere una settimana tra gli indigeni wamiri. Giunti al posto di confine della riserva, strettamente sorvegliato, il capo della comunità, Mário Paroê, ci intimò di andare nella città di Manaua per chiedere l’autorizzazione a soggiornare nella riserva, autorizzazione che poi ci fu negata.
Com’è oggi la situazione, alla luce anche della nuova presidenza del Brasile, e quale considerazione ha il tuo ruolo di rappresentante del popolo nativo macuxi?
Grazie a Dio la nostra leadership sta aumentando e sempre più popolazioni di nativi prendono coscienza della necessità di far cessare questa infelice dittatura dei missionari del CIMI (Conselho Indigenista Missionário) e delle ONG indigeniste. Leader indigeni come Raoni, che ha partecipato ad un incontro con Papa Francesco e il presidente francese Macron, non hanno più il monopolio di rappresentare le popolazioni dell’Amazonia, specialmente dopo la libertà raggiunta con il nuovo governo del presidente Bolsonaro.
Il presidente di destra Jair Bolsonaro appoggia gli indigeni dell’Amazzonia?
All’apertura della sessione dell’Onu, lo scorso 24 settembre, Bolsonaro ha portato l’indigena Ysani Kalapalo con il sostegno del Gruppo di Agricoltori e Produttori indigeni che già riunisce non meno di cinquantadue popolazioni di nativi. Il presidente vede in questa giovane donna la possibile rappresentante del mondo indigeno amazzonico, nell’ottica di un ricambio generazionale rispetto al citato monopolio di personaggi come Raoni.
C’è una speranza che le giovani generazioni indigene si affranchino dall’ipoteca ideologica imposta dalla visione marxista e riescano finalmente a superare l’imposizione del primitivismo?
Le testimonianze pubblicate dalla rivista “Catolicismo” confermano il desiderio dei nuovi leader indigeni, come Kaynä Munduruku, di rialzare la testa chiedendo più libertà. Quest’altra giovane donna ha detto chiaramente che è arrivato il tempo di non accettare più che antropologi e indigenisti «ci impongano la nostra identità», perché «noi sappiamo bene chi siamo».
È giusto e doveroso dare agli indigeni le stesse opportunità, in termini di lavoro, di educazione, di progresso, di sanità, di sicurezza, che hanno tutti gli altri brasiliani.
È un sentimento condiviso dai membri delle popolazioni?
L’assoluta maggioranza degli indigeni dell’Amazzonia brasiliana aspirano ad una libertà piena, chiedono di poter godere di una educazione di alto profilo, di poter esprimere al massimo le proprie potenzialità, i propri desideri, le proprie attitudini, il proprio spirito creativo, il proprio spirito imprenditoriale e di poter produrre ricchezza.
Tutto questo sarà possibile se ci sarà l’unione di indigeni, neri, bianchi, gialli e meticci. Occorre unire gli sforzi, le idee, le risorse; occorre unire i brasiliani e tutti coloro che nel mondo posseggono uno spirito di umanità, di virtù, che li renda capaci di lottare per la libertà e la dignità di ogni essere umano, senza alcuna discriminazione.
A che punto è la battaglia che stai combattendo per garantire a tutti gli indigeni dell’Amazzonia pieni diritti e piena libertà?
Visto che parli di battaglia, ripeterò una citazione che amo usare spesso. Si tratta delle parole pronunciate da Napoleone nella campagna del Piemonte, durante un discorso rivolto ai suoi soldati: «Avete vinto sanguinose battaglie senza cannoni, avete attraversato fiumi senza ponti, avete marciato per incredibili distanze senza scarponi, avete dormito all’addiaccio senza mettere nulla sotto i denti, e tutto questo grazie alla vostra audace perseveranza. Ma, cari soldati, è come se non aveste fatto nulla rispetto a quello che ancora c’è da fare!». Abbiamo ancora molto da fare per garantire agli indigeni dell’Amazzonia una vita di pace, armonia e prosperità.
Gianfranco Amato