La Messa “beat” e l’inganno dell’eterna gioventù
Cari amici di Duc in altum. “Un viaggio spericolato nella cultura beat” è quello che Aurelio Porfiri ci propone a partire dal seguente articolo, nel quale il maestro prende in considerazione la cossiddetta “Messa dei giovani”, nata negli anni Sessanta del secolo scorso, le cui nefaste conseguenze, a livello musicale ma non solo, sono giunte fino a noi.
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Uno dei temi forti del post-concilio, per ciò che riguarda la liturgia, è senz’altro la cosiddetta “Messa dei giovani”, cioè una Messa tagliata sulle esigenze specifiche di persone considerate in età giovanile. Significa proporre anche una musica che corrisponda a quella che i “giovani” comunemente ascoltano, cioè la musica commerciale. Fenomeno interessante e importante, soprattutto se si va ad analizzare il tutto in una prospettiva storica. È quanto cercherò di fare, cominciando dall’analizzare la categoria di “giovane”.
Prima dei nostri tempi la gioventù è sempre stata considerata un’età intermedia fra adolescenza e maturità, una fase di preparazione in vista della maturità, non un assoluto a sé stante. Di conseguenza la musica liturgica non dovrebbe piegarsi alle “esigenze giovanili”, ma introdurre i giovani alla grandezza e alla bellezza della liturgia.
La Chiesa faceva bene, un tempo, a coltivare il canto dei bambini, i pueri cantores, dalle cui schiere uscivano sacerdoti, grandi uomini di fede, papi, santi. Attraverso la musica li formava e li faceva crescere.
Romano Amerio nel suo fondamentale libro Iota Unum osservava: “Tutti i motivi di questo giovanilismo del mondo contemporaneo, partecipato dalla Chiesa, si uniscono nel discorso dell’aprile 1971 a un gruppo di hippies concorsi a Roma a manifestare per la pace. Il Papa rileva con lode ‘i valori segreti’ che i giovani vanno cercando e li enumera. E primo la spontaneità, che al Papa non sembra in contraddizione con la ricerca, benché una spontaneità ricercata cessi di essere spontaneità. Non gli sembra molto in contraddizione nemmeno con la moralità, benché questa, essendo intenzionalità consaputa, si sovrapponga alla spontaneità e possa contraddirle. Il secondo valore della gioventù è ‘la liberazione da certi vincoli formali e convenzionali’. Il Papa non precisa quali siano. D’altronde le forme sono l’apparire delle sostanze, sono la sostanza medesima nel suo apparire, cioè nel suo entrare nel mondo. E le convenzionalità sono le convenienze, cioè i consensi, e sono buone se sono consensi in cose buone. Il terzo è ‘la necessità di essere sé stessi’. Ma non si chiarisce qual è l’Io che il giovane deve attuare e in cui riconoscersi: ve n’è infatti una pluralità in una natura libera, trasmutabile in tutte guise. L’Io vero esige non che il giovane si realizzi comunque, ma che egli si trasformi e diventi persino un altro da sé. D’altronde la parola del Vangelo non ammette chiosa: abnegat semetipsum (Luc., 9, 23). Il Papa medesimo aveva il giorno prima esortato alla metanoia. Dunque: realizzarsi o trasformarsi? Il quarto è lo slancio ‘a vivere e interpretare il proprio tempo’. Il Papa tuttavia non porge ai giovani la chiave interpretativa del proprio tempo e non rileva che, per la religione, nell’effimero del proprio tempo l’uomo ha da ricercare il non effimero, cioè il fine ultimo che permane attraverso tutto l’effimero. Così, avendo svolto il discorso senza alcuna esplicitazione religiosa, Paolo VI conclude un po’ inopinatamente: ‘Noi pensiamo che in questa vostra interiore ricerca voi avvertiate il bisogno di Dio’. Certo il Papa parla qui opinativamente e non magistralmente“.
Questa severa critica dell’atteggiamento verso la gioventù da parte della Chiesa postconciliare deve farci ben riflettere. Io stesso ho visto, nelle parrocchie romane che ho frequentato nella mia gioventù, come si delegasse “l’animazione musicale” al gruppo dei giovani, ma senza mai curarsi che i giovani ricevessero un minino di formazione per svolgere quel servizio. Del resto i sacerdoti non avrebbero saputo da dove cominciare, vista la scarsa o inesistente formazione musicale nei seminari. Non si vedeva il giovane come potenziale adulto, ma come appartenente a una categoria a sé stante. Parliamoci chiaro: io per primo vorrei tornare a essere giovane, il tempo della speranza e della spensieratezza, ma non posso dimenticare gli eccessi dovuti alla mancanza dì maturità. Un giovane si prepara alla maturità, non vive in una insensata eterna giovinezza.
Romano Amerio ci viene ancora in aiuto: “Concludendo questa analisi dell’atteggiamento nuovo del mondo e della Chiesa verso la gioventù, noteremo che anche qui si è consumata un’alterazione semantica e che i termini paterno e paternalistico son diventati termini di disprezzo, come se l’educazione del padre, come padre, non fosse esercizio eccellente di saggezza e di amore, e come se non fosse paterna tutta la pedagogia con cui Dio educò il genere umano nella via della salvezza. Ma chi non vede che in un sistema, in cui il valore si fa poggiare sull’autenticità e sul rifiuto di ogni imitazione, il primo rifiuto è il rifiuto della dipendenza paterna? Il vero, oltrepassando gli ipocorismi di chierici e di laici, si è che la gioventù è uno stato di virtualità e di imperfezione che non si può possedere come stato ideale né prendere come modello. Inoltre la gioventù vale come avvenire e speranza dell’avvenire, talmente che realizzandosi l’avvenire essa scema e si perde. La favola di Ebe si converte nella favola di Psiche. Anzi, se si divinizza la gioventù, la si getta al pessimismo, perché le si fa desiderare di perpetuarsi, mentre non si può. La gioventù è un progetto di non-gioventù e l’età matura non deve modellarsi su di essa, ma sulla saggezza maturata. Del resto nessuna età della vita ha per modello al proprio divenire un’età della vita, né la propria né l’altrui. Il modello infatti di ciascuna è dato dall’essenza deontologica dell’uomo, la quale è da ricercare e vivere, identica, in ciascuna età della vita. Anche qui lo spirito di vertigine fa voltare il dipendente verso l’indipendenza e l’insufficiente verso l’autosufficienza“. Insomma, segregare la gioventù in una “musica giovane” non aiuta certamente il giovane a maturare nella pienezza della fede. E poi quale musica giovane? Sappiamo che la musica commerciale è lo scaltro prodotto di operatori musicali che giocano spesso con i nostri bassi istinti, infarcendo le canzoni di richiami ai nostri istinti più vulnerabili per creare dipendenza, proprio perché il loro scopo è vendere il più possibile. L’uso del sentimentalismo è uno dei mezzi usati, oramai dilagante anche nella nostra musica liturgica.
Enrica Perrucchietti, ne Le origini occulte della musica, fa un’osservazione interessante sui meccanismi che regolano il mondo della musica commerciale: “La manipolazione delle stesse star in campo musicale è sfacciata: basti vedere come i volti puliti di ragazzine che sono state proposte nella versione acqua e sapone si sono ridotte nel giro di un paio di album, da Britney Spears a Miley Cyrus. I manager seguono uno schema chiaro: proporre un’adolescente carina, incarnazione virginale della purezza, e trasformarla nel giro di un paio di anni in modo che gli adolescenti che crescono con lei vivano in apparenza quelle stesse ‘trasgressioni’, sottoposti a una tempesta ormonale tipica della loro età“.
Prendere a modello questo mondo per far pregare la gente è come prendere a modello il fast food per una sana alimentazione.
E dire che la Cei aveva affrontato questo tema della Messa dei giovani in un documento nel quale saggiamente affermava: “Una vera pastorale non svilisce la liturgia, col pretesto di adattarla, ma educa a comprenderla, per adattarsi ad essa”. Sarebbe bastata la comprensione di questa frase per evitare decenni di abusi liturgici e musicali.
Seneca, nelle sue Lettere a Lucilio, afferma: “Tutto ciò che vediamo o tocchiamo Platone non lo annovera tra gli esseri che ritiene abbiano un’esistenza propria; poiché essi scorrono e di continuo diminuiscono o crescono. Nessuno di noi è in vecchiaia lo stesso che in gioventù; nessuno di noi è al mattino lo stesso della sera prima. I nostri corpi sono trascinati via come l’acqua dei fiumi. Tutto ciò che vedi vola al ritmo del tempo: niente di quello che abbiamo sotto gli occhi rimane tale e quale; io stesso mentre dico che queste cose cambiano, sono cambiato. Dice Eraclito: ‘Non ci si può immergere due volte nello stesso fiume’. Il nome del fiume rimane lo stesso, ma l’acqua è passata oltre. È un fenomeno più evidente in un corso d’acqua che nell’uomo; ma il flusso che trascina via anche noi è altrettanto veloce; perciò mi stupisco della nostra insensatezza: amiamo tanto una cosa fugacissima, il nostro corpo, e temiamo il momento della morte, mentre ogni momento è la morte dello stato precedente: non devi temere che avvenga una volta ciò che avviene ogni giorno!”.
Assolutizzare uno stato della vita rispetto agli altri non è indice di saggezza.
Ma qui dobbiamo anche parlare del clima in cui si sviluppò la “Messa dei giovani”, che in Italia ebbe coordinate storiche ben precise, riferibili a eventi culturali internazionali le cui ripercussioni sulla società e sulla Chiesa furono molto forti. Allora prepariamoci a un viaggio spericolato nella cultura beat.
Aurelio Porfiri