La carta vincente? Amare chi ci fa soffrire
Cari amici di Duc in altum, è tornata a scrivermi Giovanna, la religiosa che già tempo fa è intervenuta nel blog. Questa volta propone una riflessione sull’importanza di amare coloro che critichiamo e che ci fanno soffrire. Parole sulle quali meditare in un momento come questo, nel quale tanti si chiedono come salvaguardare la fede di fronte ad attacchi che arrivano dall’interno stesso e addirittura dai vertici della Chiesa.
A.M.V.
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Il virus dell’umanesimo, dal XIV secolo in poi, ha iniziato ad agire lentamente, senza che l’uomo, fino ad allora “religiosus”, se ne accorgesse. C’è voluto tempo, ma alla fine è riuscito a contaminare l’organo principale, quello dal quale dipendeva ogni possibilità di guarigione, cioè la Chiesa cattolica.
Così ci troviamo oggi inseriti in una Chiesa malata, che ha rimosso il soprannaturale – dal quale dipende la sua esistenza – per fare dell’uomo l’oggetto principale di ogni suo interesse e di ogni sua azione.
Staccandosi dalla fonte della vita questa Chiesa malata ha dimenticato che l’amore per il prossimo, nel quale tanto si è immersa, è solo una conseguenza dell’amore per Dio.
L’umanesimo cristiano, di cui tanto parlano quei sacerdoti e laici che, comunque, una parvenza religiosa la vorrebbero mantenere, in realtà non esiste, è una contraddizione, perché o c’è l’uomo o c’è il cristiano (colui che è di Cristo). Cristo non può essere l’aggettivo dell’uomo.
“Sappiate bene che è finito il tempo in cui si aveva a che fare con degli avversari; ora avete a che fare con dei malati che cercano di attirarvi nella loro malattia, presentandola come un grado superiore di salute”, così scriveva il padre Marie-Dominique Molinié nel 1971, parlando della situazione della Chiesa in Francia.
Come in altre lettere – tutte da bere, tanto sono dissetanti per la mente – anche in questa egli aggiungeva che “bisogna chiedere a Dio la grazia di non lasciarsi turbare da chi si offre di iniziarvi agli stati d’animo superiori della ricerca e del disagio”, anche se la resistenza scatenerà l’ira dei malati.
Insomma, una vera profezia.
Infatti c’è oggi una parte maggioritaria di Chiesa, quella dei malati, che disprezza molte sue membra e se le vorrebbe volentieri amputare, senza pensare alle conseguenze di un Corpo Mistico mutilato. Per questa parte di Chiesa il soprannaturale è diventato perfettamente estraneo: non comprende il Corpo Mistico e ancor meno può comprendere il Corpo Mistico mutilato.
Le membra che la Chiesa malata disprezza sono bollate di integralismo, rigidità, moralismo, ed è su di esse che vorrei fare una riflessione, per cercare di capire perché la loro azione risulta così sterile e non dà risultati all’altezza di tanti sforzi.
Prima di tutto chi sono questi disprezzati? Come si possono definire?
Capovolgendo la solita spiegazione ormai usurata possiamo dire che sono i “piccoli” del Vangelo. I piccoli credono a quello che ha sempre insegnato la Chiesa, che è madre, sono stati educati alle cose sante e le amano perché sanno, come i bambini nei confronti dei loro genitori, che la loro vita ha senso solo a partire da esse, e per questo sopportano di essere marchiati e additati come benpensanti e moralisti, perché oggi il pensare bene e l’avere idee precise è una colpa.
Sono definiti intolleranti, come se esserlo fosse un reato. Ma giustamente Chesterton osservava che “la tolleranza è la virtù dell’uomo senza convinzioni”, e aveva ragione, tollerare vuol dire “prendere su di sé”, “farsi carico”, e perché devo fare miei gli errori degli altri?
In più, intorno a loro è stata abilmente creata un’aura di antipatia e di disprezzo a prescindere: sono ritenuti degli intoccabili, ovvero dei fuori casta.
Con loro la Chiesa malata, che parla tanto di ponti, ha fatto crollare ogni ponte.
Tenuti da parte perché non contaminino il sistema, questi disprezzati sono diventati periferia, quello scarto che tanto pesso figura nei ragionamenti ella Chiesa malata, e penso che proprio per questo il Signore li ami, perché sono perseguitati a causa del Suo nome.
Allora mi chiedo: perché tutto quello che dicono e fanno non ha un riscontro tangibile, che ribalti il frangente in cui ci troviamo?
“Maestro, non ti importa che noi periamo?” (Mc 4,38)
“Signore, non ti importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire?” (Lc 10,40)
Signore, non ti importa che la tua Chiesa si stia suicidando?
Ma a noi, come a Marta e agli apostoli, che guardavano rispettivamente la sorella e il mare in tempesta, il Signore vuole insegnare che c’è qualcosa che va oltre il contingente, e che è lì che bisogna dirigere lo sguardo, così “da non guardare più nessuno alla maniera umana” (2Cor5,14-21).
E qui vorrei aprire una parentesi. Tante volte ci si sofferma troppo sui video e sulle notizie che ci mostrano il degrado della Chiesa umana; non che non si debba essere informati, anzi, è necessario esserlo, però spesso vi indugiamo troppo, e questo basta al demonio per entrare in noi e attizzare tutta una serie di reazioni scomposte che ci portano a fare il suo gioco.
Dobbiamo ricordarci che “il nostro combattimento infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra”. (Ef 6,12). Il male non va contemplato, perché noi non abbiamo la forza per resistergli.
Chiusa parentesi.
Poi ci sono le reazioni umane comprensibili, di disapprovazione, di dispiacere, gli appelli, il ricorrere alla correzione fraterna, alla mobilitazione di gruppo, tutto giusto, giustissimo, però non è che questo ci faccia troppo somiglianti ai Boanerghes (Figli del tuono) Giacomo e Giovanni prima della Passione?
Ecco, il punto è proprio questo: penso che sia necessario per noi, come è stato per loro, attraversare la Passione mano nella mano con l’Amato, per essere trasfigurati, per imparare il suo modo di amare, che deve diventare il nostro.
Non ci si può fermare prima, pur con tutte le buone intenzioni e azioni, perché si resta incompiuti.
Perché quello che importa al Signore è la salvezza di tutti, compresi quelli che lo stanno tradendo, salvezza che si raggiunge nella somiglianza a Cristo, al di là e al di sopra di ogni accadimento terreno, che Lui potrebbe sistemare in qualsiasi momento piegando solo il suo dito mignolo.
E allora mi sono chiesta: quando leggo e vedo tutto quello che sta accadendo nella Chiesa, mi sanguina il cuore come a Lui? Giudico tutto questo come lo giudica Lui? Ho i suoi stessi sentimenti d’amore (non di sopportazione o di non-odio, ma di amore) nei confronti di chi Lo tradisce?
Infatti è per questo che siamo stati creati, per assomigliargli, perché, come spiega in una bellissima omelia san Basilio il Grande, l’immagine di Dio in noi l’abbiamo da subito, la somiglianza dobbiamo conquistarla durante tutta la nostra vita.
Ma per riuscirci occorre alzare la mira e portarci nella dimensione soprannaturale, oggi tanto sconosciuta, perché è lì e non altrove che si decidono gli eventi fondamentali del mondo, è da lì che ci sono donati i miracoli, e l’umanamente impossibile diventa possibile.
Ed è la strada che hanno sempre battuto i santi, con ottimi risultati.
“Il mondo è in fiamme” esclamava santa Teresa di Gesù (d’Avila) che, pur in clausura, era al corrente di tutto ciò che accadeva fuori.
Nel Cammino di perfezione scrive: “In questo tempo mi giunse notizia dei danni e delle stragi che avevano fatto in Francia i luterani e di quanto andasse aumentando questa malaugurata setta. Ne provai gran dolore e, come se io potessi o fossi qualcosa, piangevo con il Signore e lo supplicavo di porre rimedio a tanto male”.
E ancora: “Oh, mio Redentore, il mio cuore non può giungere a tanto, senza sentirsi spezzare dalla pena! Che cos’è oggi questo atteggiamento dei cristiani? Possibile che a perseguitarvi siano sempre coloro che più vi devono? Coloro ai quali concedete le vostre migliori grazie, che scegliete per vostri amici, fra i quali vivete e ai quali vi comunicate con i sacramenti?”.
Però Teresa non si ferma solo a giudicare rettamente, decide di agire, ma lo fa trasferendo tutto sul piano soprannaturale, l’unico che porta frutto: “Decisi cioè di seguire i precetti evangelici con tutta la perfezione possibile”.
Forti della nostra logica umana potremmo ribattere: ma cosa sta dicendo? Cosa c’entra?
C’entra, perché lei aveva capito che solo partendo dalla santità personale (che è richiesta a ogni cristiano) poteva incidere positivamente sulle sorti del genere umano.
Un’altra Teresa – di Calcutta – a un giornalista che si lamentava con lei della situazione del mondo e della Chiesa, rispondeva “Il problema del mondo e della Chiesa siamo io e lei”.
Tutte e due le sante credevano nell’esistenza del Corpo Mistico e nella sua azione vivificante.
Il problema della Chiesa e del mondo è che nel Corpo Mistico, di cui siamo parte, circola poco amore, perché molto difficilmente riusciamo a portare quello che racimoliamo dal nostro cuore, al grado di incandescenza che è richiesto. Siamo troppo tiepidi.
Il “perdona loro perché non sanno quello che fanno” è da ripetere anche oggi, ma con convinzione e con lo stesso amore con cui lo ha pronunciato Lui.
Chiaramente questo non vuol dire ritirarsi in un angolo e tacere, perché la verità va proclamata apertamente, la correzione fraterna va fatta (Mt 18,15), ma con un valore aggiunto che fa la differenza: un amore profondo nei confronti di coloro ai quali ci rivolgiamo, unito a quello sguardo di una dolcezza insopportabile che, ancora nel XX secolo, padre Kolbe rivolgeva ai suoi carnefici.
Così Gesù, così i santi, così anche noi che santi dobbiamo diventare per assomigliare al Maestro, se no vuol dire che abbiamo attraversato inutilmente la vita.
Il succo della mia riflessione è che tante ottime analisi, denunce e approfondimenti, vanno coniugati a un amore viscerale per coloro che ne sono l’oggetto – e questo atteggiamento richiede una vera Passione, tanto è difficile da assumere – per il solo motivo che Cristo li ama.
Ed è solo partendo dall’amore di Cristo che noi possiamo a nostra volta amarli.
Se no tutto si riduce a filantropia, che ci riporta a livello dell’umanesimo.
Attraverso l’odierna grave crisi della Chiesa, Dio ci sta mettendo tutti alla prova: chi lo sta tradendo perché abbia modo e occasione per capire e ritornare a Lui; chi formalmente è nel giusto, perché comprenda che c’è una giustizia più radicale e profonda, che si coniuga solo con la carità teologale.
Perché nessuno può dirsi giusto davanti a Lui.
Giovanna, eremita