Poche chiacchiere. In re tam iusta nulla est deliberatio
Cari amici di Duc in altum, a proposito del sinodo amazzonico appena terminato e delle celebrazioni idolatriche che lo hanno segnato ho ricevuto un contributo che volentieri vi propongo.
A.M.V.
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Caro Aldo Maria, cari tutti fratelli in Cristo, volevo proporre, submissis verbis, una breve riflessione sui recentissimi avvenimenti che tanto clamore hanno suscitato nel mondo cattolico e non solo, fino a raggiungere toni parossistici da ambo i lati della barricata. Non espliciterò ulteriormente, perché gli eventi a cui mi riferisco saranno chiari da quanto dico e non vi sarà bisogno di alcuna glossa. Seguendo la mia vocazione di ricerca, non mi rivolgerò direttamente al presente (non ho il dono di essere un cronista), ma al passato e, più particolarmente, all’antichità, che tanto ha da insegnarci. Vi propongo quindi due episodi di martirio fra i meglio documentati dell’antichità, entrambi in qualche modo vicini a noi poiché entrambi espressione del cristianesimo latino. Ambedue gli episodi si ambientano in Nord Africa, all’epoca sotto il solido dominio di Roma.
Il primo ha luogo a Scilli, nel 180 d. C. Dodici cristiani, sette uomini e cinque donne, sono tradotti di fronte al proconsole Saturnino, con l’accusa infamante di essere, per l’appunto, cristiani. Sono i celebri Martiri Scillitani, i cui atti, registrando il processo che subirono prima del martirio, rappresentano uno dei documenti più antichi della cristianità latina. Ma torniamo al processo. Viene loro ingiunto di giurare per il genio dell’imperatore (per genium domini nostri imperatoris), ovvero di prestare un implicito atto di culto all’imperatore divinizzato, cosa che da sempre i cristiani sentirono come incompatibile con la loro fede nel Signore Gesù, unico regem regum et imperatorem omnium gentium secondo le loro stesse parole. I futuri martiri rifiutano con decisione, senza scomporsi. Il proconsole, buonuomo, offre loro una dilazione per riflettere sulla cosa e deliberare in merito a mente fredda (“numquid ad deliberandum spatium vultis?”, “non volete forse un po’ di tempo per decidere?”). Il loro portaparola, Sperato, facendo uso della vera parresia, quella che non guarda in faccia agli uomini ma solo a Dio, risponde con una frase che mi ha fatto tremare quando l’ho letta: In re tam iusta nulla est deliberatio (“in un argomento tanto giusto non v’è bisogno di alcuna deliberazione”), donde il titolo di questo intervento. Come a dire al buon Saturnino, che pure faceva tutto ciò che era in suo potere per salvare questi testardi compatrioti: se si tratta della nostra fedeltà all’unico Signore della nostra vita, non c’è bisogno che tu ci dia tempo per riflettere, la riposta è semplice.
Il secondo episodio ha luogo a Cartagine, nel secolo successivo. Siamo nel 258 d. C. Il vescovo della città, il futuro san Cipriano, viene condotto anch’egli alla presenza del proconsole Galerio Massimo, che gli ordina di caeremoniari, ovvero di offrire dei sacrifici. Rispetto ai martiri di Scilli, qui l’ingiunzione rituale è più evidente e più chiara: non tanto giurare per il genio dell’imperatore, quanto offrire un sacrificio pagano. La risposta di Cipriano? Non facio.
Questo breve excursus alle origini della nostra fede vuole solo essere un’occasione di riflessione, e ancor più stimolare un salutare confronto tra quanto successo recentemente in Vaticano e nelle sue immediate pertinenze e ciò che dicevano e facevano i nostri predecessori di tanti secoli fa. Avremo ancora il coraggio e la risolutezza, di fronte a chi si presta ad atti di culto estranei alla tradizione cristiana e incompatibili con i suoi presupposti più basilari (cose obsolete tipo il primo comandamento), di indicare il luminoso esempio di chi pagò con la vita il suo rifiuto di venerare altri all’infuori di Cristo Gesù?
Il mondo e, ahimè, alcuni sacri pastori, ci offrono il tempo per deliberare in merito, ma io rispondo assieme a Sperato: In re tam iusta nulla est deliberatio.
Pietro D’Agostino