Cari amici di Duc in altum, il maestro Aurelio Porfiri prosegue nel suo racconto dei tempi della “Messa beat” e della rivouzione nella musica liturgica.
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Ho avuto modo di constatare che alcune persone fanno una lettura sempre ideologica di ciò che scrivo. Le mie osservazioni vengono spesso intese come contro qualcosa, quando forse sono a favore di qualcos’altro. Tutto quello che scrivo parte sempre dal mio amore per la liturgia, non dall’intento di polemizzare.
Lo dico perché prevedo sussulti per quanto sto per scrivere su Marcello Giombini (1928-2003), che fu l’autore della “Messa beat” e compositore chiave nel mondo della cosiddetta “musica giovanile”.
Devo dire fin dall’inizio che egli non era certamente un musicista sprovveduto. Aveva una preparazione musicale di buon livello ed era attivo come musicologo e filologo. Fu anche direttore del coro dell’Accademia Filarmonica Romana e compositore di più di cento colonne sonore. Egli stesso così si descriveva: “Mi sono sempre definito un compositore di musica popolare; questo, oltre che per qualificare il mio genere di lavoro, per distinguermi da quei musicisti che, specie negli anni della mia giovinezza, guardavano con ‘cortigiano’ disprezzo a ogni tipo di musica che non fosse quella definita dalla critica come musica contemporanea. Alludo cioè a quella musica che, a parer mio, musica non era ma ne era, invece, l’assoluta negazione. E molte ‘nullità’ vennero a galla in quel triste periodo e anche molti molestatori di strumenti musicali; le partiture cedettero il passo ai diagrammi, le sette note divennero dodici, le melodie furono chiamate ‘serie’, e tutto divenne improvvisamente stonato, antimusicale… Sì, perché secondo Ia marxifilosofia di Theodor Wiesengrund Adorno il mostro da combattere ed abbattere era la mercificazione dell’arte ad opera delle grandi industrie e il modo migliore per farlo era I’isolamento dell’arte stessa! Ma, confesso, ebbi anch’io il mio periodo… seriale! Fu brevissimo, però, lo giuro: giusto il tempo di scansare quello sterile mondo e catturare talune sonorità che avrebbero poi arricchito la mia tavolozza di compositore di musiche per molti futuri… film dell‘orrore. Le musiche composte in quel brevissimo ma prolifico periodo furono almeno una dozzina: si trattava per lo più di brani cameristici di stile serial-neoclassico per quintetti a fiato, quartetto d’archi, violino e pianoforte, canto e pianoforte, pianoforte e orchestra d’archi e, anche, una Messa di difficilissima intonazione… Tutte queste composizioni che io definisco ‘giovanili’ sono comunque andate distrutte e non mi si chieda il come e il perché”.
Sono parole in larga parte condivisibili. L’esigenza di comunicazione verso il pubblico, evitando di rinchiudersi in un ghetto, fu avvertita anche da altri compositori (penso a Gian Carlo Menotti, Leonard Bernstein, Domenico Bartolucci) la cui esperienza artistica è stata in polemica con l’establishment musicale e culturale dell’epoca, espressione di una dittatura della “musica contemporanea”. Il modo di essere popolare di Giombini si espresse nell’impegno di scrivere una musica, destinata al culto cattolico, che ricalcasse gli stilemi della musica beat, della musica giovanile. Lascio da parte la sua vicinanza a un certo mondo para-esoterico, le sonorità new age, le colonne sonore per film erotici (se si guarda alla sua discografia, i film di questo genere furono non pochi). Mi concentro invece sull’opportunità di un certo tipo di musica per la liturgia.
Da un testo di don Biagio Mandorino, Le forme musicali nella liturgia rinnovata nel panorama musicale di Marcello Giombini, possiamo attingere alcune parti che saranno utili per il nostro percorso. Riferendosi a una critica del musicologo Giulio Confalonieri, Mandorino osservava che forse le polemiche erano nate dal fatto che la messa beat aveva portato a una “scossa” nel mondo musicale e in quello della Chiesa, il che è fuori di dubbio. Ma tale scossa, in quella direzione, era necessaria? Io non lo penso.
Don Mandorino riporta una dichiarazione fatta a lui stesso dal compositore nel 1995: “Nell’immediato pre-Concilio la situazione di molte celebrazioni cui si assisteva era una grande lagna: si percepiva lo ‘stroppiamento’ del gregoriano e dei ‘moderni’, Perosi e Vittadini, ricordo della fanciullezza. Ma, tranne questi, nella chiesa si cantavano nenie”.
In proposito ci sarebbe molto da dire. Mi limito ad alcune osservazioni. Se una cosa è corrotta, si cerca di farla meglio, non di corromperla ancora di più. Se accettiamo che la musica liturgica in quegli anni non era esaltante (e io non condivido questo giudizio), ne consegue che sarebbe stato necessario migliorarla, non stravolgerla. Se il gregoriano era corrotto, si doveva cercare un recupero della sua vera tradizione (del resto questo era stato fatto dai monaci di Solesmes su incoraggiamento dei pontefici), non una sua estromissione dal culto. Insomma, facendo un esempio: se i miei studenti di scuola non gradiscono Giacomo Leopardi perché lo considerano una nenia, non è che io lo sostituisco con Fedez, con tutto il rispetto per quest’ultimo.
Fa quasi sorridere pensare che un mese prima dell’esecuzione della famosa messa beat nella sala Borromini, di cui abbiamo parlato in precedenza, la Congregazione dei riti emanò un importante documento sulla musica sacra – Musicam sacram, (5 marzo 1967) – in cui si diceva: “I compositori si accingano alla nuova opera con l’impegno di continuare quella tradizione musicale che ha donato alla Chiesa un vero patrimonio per il culto divino. Studino le opere del passato, i loro generi e le loro caratteristiche, ma considerino attentamente anche le nuove leggi e le nuove esigenze della sacra Liturgia, così che le nuove forme risultino come uno sviluppo organico di quelle già esistenti, e le nuove opere formino una nuova parte del patrimonio musicale della Chiesa, non indegne di stare a fianco del patrimonio del passato”. Ma se il patrimonio del passato è considerato inutilizzabile, come si potrà procedere in tale direzione? Io non metto tutta la responsabilità sulle spalle dell’autore della messa beat. Ben maggiore è la responsabilità di quegli uomini di Chiesa e quegli studiosi che, pur conoscendo ciò che la Chiesa insegnava, decisero di ignorare tutto.
Romano Amerio scrisse: “In Osservatore romano del 23 luglio 1972, introducendo un’altra analogia poetica, si scrive che gli attuali gemiti della Chiesa non sono i gemiti di un’agonia, ma quelli di un parto, quando sta per venire al mondo un essere nuovo, cioè una nuova Chiesa. Ma può nascere una Chiesa nuova? Qui, nell’invoglio di poetiche metafore e nel miscuglio dei concetti, si cela l’idea di cosa impossibile ad avvenire secondo il sistema cattolico, l’idea cioè che il divenire storico della Chiesa possa essere un divenire di fondo, una mutazione sostanziale, un trasferirsi da tutt’altra in tutt’altra. Secondo il sistema cattolico invece il divenire della Chiesa consta di una vicissitudine in cui cangiano le accidentali forme e le storiche congiunture, serbandosi identica e senza novazione la sostanza della religione. La sola novazione che l’ecclesiologia ortodossa conosca è la novazione escatologica con nuova terra e nuovo cielo, cioè la finale ed eterna riordinazione dell’universa creatura, liberata dall’imperfezione, non del limite, ma del peccato, mediante la giustizia delle giustizie nella vita eterna“.
Insomma, ci sia pure il rinnovamento, anche nella musica liturgica, ma non la rivoluzione. Lo stesso Amerio ci dice, in un passaggio che cito spesso, che non dobbiamo allarmarci quando la Chiesa nelle sue azioni non è pari alla verità che annuncia (o alla musica sacra, aggiungo io, eseguita in modo improprio), ma quando questa viene perduta: “E qui conviene formulare la legge stessa della conservazione storica della Chiesa, legge che è insieme il criterio supremo della sua apologetica. La Chiesa è fondata sul Verbo incarnato, cioè su una verità divina rivelata. Certo le sono date anche le energie sufficienti a pareggiare la propria vita a quella verità: che la virtù sia possibile in ogni momento è un dogma di fede. La Chiesa però non va perduta nel caso che non pareggiasse la verità, ma nel caso che perdesse la verità. La Chiesa peregrinante è da sé stessa, per così dire, condannata alla defezione pratica e alla penitenza: oggi la si dice in atto di continua conversione. Ma essa si perde non quando le umane infermità la mettono in contraddizione (questa contraddizione è inerente allo stato peregrinale), ma solo quando la corruzione pratica si alza tanto da intaccare il dogma e da formulare in proposizioni teoretiche le depravazioni che si trovano nella vita“.
Che ci potessero essere esigenze di riforma per la liturgia e la musica non lo metto in dubbio; ma non tutte le risposte fornite, malgrado le buone intenzioni, hanno reso onore all’altezza e alla gravità delle domande.
Aurelio Porfiri
- continua
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Precedenti articoli:
La “Messa beat” e l’inganno dell’eterna gioventù
La falsa liberazione del Sessantotto
Così si arrivò alla “Messa beat”