Intervista / Stefano Fontana: “Retta ragione e senso della fede. Ecco, oltre alla preghiera, le armi della resistenza cattolica”
Cari amici di Duc in altum, oggi sono particolarmente contento di proporvi una chiacchierata che ho avuto con il professor Stefano Fontana. Filosofo e divulgatore, ben noto a moltissimi di voi, Fontana è autore di libri che consiglio vivamente, quali il recente Esortazione o rivoluzione? Tutti i problemi di “Amoris laetitia”, e poi Chiesa gnostica e secolarizzazione. L’antica eresia e la disgregazione della fede; La nuova Chiesa di Karl Rahner. Il teologo che ha insegnato ad arrendersi al mondo, e l’utilissimo manuale Filosofia per tutti. Una breve storia del pensiero da Socrate a Ratzinger.
Tema della nostra conversazione: lo stato confusionale della Chiesa cattolica e le prospettive per l’anno che è appena incominciato.
Coraggiosamente e lucidamente controcorrente rispetto al pensiero dominante, anche nella Chiesa, Fontana (che ho avuto modo di apprezzare in occasione dell’ultimo festival di Fede & Cultura per la sua relazione sulle volute ambiguità di Amoris laetitia), fa notare che l’attuale situazione viene da lontano, ma non manca di offrire indicazioni sull’oggi, in grado di aiutare un’efficace resistenza cattolica alla deriva con la quale ci dobbiamo quotidianamente confrontare.
A.M.V.
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Stefano Fontana, che cosa ti aspetti dal 2020 sul piano della vita della Chiesa? Dai lettori del mio blog Duc in altum ricevo messaggi carichi di preoccupazione. Sembra diffusa l’impressione che stiamo andando incontro a qualche frattura dolorosa. Che ne pensi?
L’attuale situazione di confusione nella Chiesa che, come disse il cardinale Caffarra, solo un cieco può non vedere, viene da lontano, ha avuto e quindi avrà tempi molto lunghi che senz’altro supereranno il 2020. San Tommaso inizia il suo libro sull’ente e l’essenza con la famosa frase: “Un piccolo errore all’inizio diventa grande alla fine”. Anche gli errori hanno infatti la loro coerenza. Gli errori filosofici e teologici sono stati tanti e molti di essi arrivano oggi a “maturazione”. Tanto è vero che, nella situazione attuale, molti sono indotti a risalire all’indietro, per trovare il punto di inizio della deriva. Segno che cresce la consapevolezza che non si tratti di casualità né solo di contingenze facilmente risolvibili. Questo andare indietro per rendersi conto e per impostare in modo non superficiale le cose, purtroppo viene oggi combattuto e discriminato, considerato un atteggiamento negativo per la Chiesa, il rifiuto di un suo necessario aggiornamento, una archeologia che negherebbe che la tradizione è qualcosa di vivo. Chi lo fa è accusato di essere dottrinario, rigido, altezzoso, dogmatico, indifferente alla varietà delle situazioni concrete e alla singolarità delle storie. Queste accuse denotano esse stesse una incompatibilità di prospettiva che ha radici lontane: importante sarebbe la sintonia con i tempi attuali e non con la verità della dottrina della fede. Sicché chi vuole tornare al punto di inizio, dove l’errore era ancora piccolo pure se già molto promettente, viene accusato di passatismo o di medievalismo, che non sono giudizi di contenuto ma di prassi, non sono dottrinali ma pastorali, nel presupposto che così facendo ci si taglia fuori dal dialogo con l’oggi. Anche questo è, quindi, la conseguenza di un piccolo errore del passato che è ormai diventato molto grande.
Ma per quanto riguarda più da vicino il 2020, qual è la tua sensazione?
Dicendo quel che ho appena detto non voglio negare che nel 2020, o comunque a breve, possano esserci fratture vistose. Ciò avverrà quando verrà fatto obbligo di prassi ecclesiali o insegnamenti dottrinali davanti a cui la coscienza di sacerdoti e fedeli dovrà attenersi al “non possumus”. In realtà in alcuni ambiti è già così, ma lo è di fatto e non ancora di diritto, o di diritto ma non in modo chiaro. I vescovi e sacerdoti polacchi, davanti a un obbligo sancito solennemente dal magistero petrino di dare l’assoluzione in confessionale al divorziato risposato che continua la nuova convivenza more uxorio, potrebbero appellarsi appunto al “non possumus”, creando una grave frattura nella Chiesa dato che invece altrove, come in Germania, la cosa avviene già in modo molto diffuso anche se non generalizzato. È solo un esempio che oggi può essere moltiplicato.
Ambiguità, confusione, frammentazione: questo il quadro…
Sì, ed è bene notare un fatto, secondo me decisivo, che farà proseguire ancora a lungo l’attuale confusione. Non ci sono chiari pronunciamenti magisteriali su questioni davanti a cui le coscienze credenti dovrebbero dire “non possumus”. Nemmeno Amoris laetitia, letta alla lettera che rimane il primo e ineludibile livello di ogni interpretazione, pone davanti a un “non possumus”, imponendo di dare la comunione ai divorziati risposati. Chi non lo fa, infatti, non viene (ufficialmente) richiamato all’ordine. Interventi dottrinali del supremo magistero che potrebbero mettere le coscienze davanti ad un aut aut vengono fatti in contesti comunicativi dal debole valore autoritativo e con un linguaggio impreciso, quindi non vincolante perché non definisce la forma dell’azione. Per questo la confusione è destinata a durare. Le novità vengono introdotte sul piano della prassi e il loro rapporto con la dottrina non viene precisato con valore di definitività e incontrovertibilità. Quando le novità riguardano più direttamente anche contenuti dottrinali sono affermate con un linguaggio retoricamente colorito, teologicamente fluttuante e sfumato, in modo che diventa difficile chiedere conto dei contenuti così espressi.
Si noti però che questo, diciamo così, modo di fare, non ha ragioni contingenti o legate al temperamento degli attori ecclesiali di oggi, ma è esso stesso la conclusione di un processo teologico. Il corto circuito oggi sta proprio qui: la nuova teologia ha alla lunga espresso il primato della prassi, a partire dalla quale però non è possibile chiarire la teologia che vi sta a monte, essendo essa appunto una prassi e non una teologia. Come si vede, si tratta di chiarimenti che richiederanno molto tempo. Non sono commisurati ai nostri tempi, ma ai tempi della Provvidenza.
Una domanda che spesso mi viene posta è: che fare di fronte all’attuale situazione di confusione? In genere rispondo che la preghiera resta l’arma più potente e che comunque non siamo noi a dover “fare” la giustizia, perché è compito di Dio, mentre a noi è chiesto di testimoniare la fede nel modo più coerente possibile. Tu come rispondi quando ti chiedono “che fare”?
Mi limito a riferire quello che ho pensato di fare io, e che sto facendo, quindi senza voler insegnare nulla. Credo che ci siano due cose alle quali il credente non può rinunciare. Poiché il credente è uomo, la prima cosa cui non può rinunciare è la recta ratio, l’uso corretto della ragione. Dato che la grazia non toglie la natura ma la perfeziona, in questo il credente viene confermato poi anche dalla fede, ma il principio rimane valido anche sul semplice piano naturale. Anche davanti agli insegnamenti del magistero ecclesiastico, non si può rinunciare a utilizzare il principio di non contraddizione, per esempio, né le regole del corretto ragionamento. Se il magistero è impreciso o si contraddice, se sbaglia dei passaggi logici, se usa una retorica che nasconde la realtà, se non si attiene alle regole dell’interpretazione nel fare l’esegesi di un passo biblico, perché dovrei seguirlo? Molte cose che sento dire nelle omelie hanno queste caratteristiche e, in questi casi, le ascolto ma non le faccio mie. Chi ha il ruolo di maestro (ha il munus docendi) nella Chiesa è un testimone. La logica della testimonianza, come ci ha insegnato tra gli altri Antonio Livi, richiede il rispetto dei metodi e dei contenuti della ragione naturale. Anche Gesù Cristo adoperava il principio di non contraddizione. Capita talvolta che ci venga detto che il tale insegnamento è in continuità con i precedenti quando il semplice esame alla luce della ragione ci dice che così non è. In questi casi, dovrei mettere da parte l’uso della ragione? Sarebbe fideismo, ma io voglio essere cattolico e non luterano.
E la seconda cosa a cui il credente non può rinunciare?
La seconda è il sensus fidei che appartiene ai fedeli in quanto battezzati e membra del Corpo di Cristo che è la Chiesa. Questo senso soprannaturale della fede, intesa non solo come atto personale ma anche come contenuti da credere, spinge il credente a capire quando la continuità con quanto insegnato dagli Apostoli non è garantita. Davanti a una affermazione del magistero non chiara, o parziale, o addirittura errata se presa alla lettera, il fedele, proprio in virtù del sensus fidei fidelium, deve sforzarsi di leggerla dentro il quadro tradizionale e completo della dottrina. Se in un testo c’è qualcosa di poco chiaro o che puzza di errore, bisogna leggere quel testo dentro l’ambito più ampio di altri testi dove siano assenti imprecisioni ed errori. Questo cerco di fare, e questo bisogna aiutarsi a fare in questi tempi, senza però dimenticare due cose. La prima è che i primi a essere preoccupati della coerenza di quello che insegnano con la dottrina tradizionale della fede dovrebbero essere i pastori e non i fedeli. La seconda è che oggi anche questo sta diventando impossibile perché, come ho già detto, le novità vengono introdotte per prassi e non per dottrina. È questo il punto centrale del “nuovo paradigma”, sicché si viene spesso invitati a mettersi in cammino mediante nuove prassi pastorali, ma senza precisare la meta né assicurare che non si tratta di un nuovo cammino, ma di quello di sempre. Bisogna aprirsi alle sorprese di Dio, si dice, ma Dio non è un prestigiatore. Lo diceva già Platone, usando naturalmente la parola Dio al plurale.
Poiché sto parlando sul piano personale, riprendo anche il cenno da te fatto alla preghiera. Io ho due momenti nei quali prego sempre per il papa e per la Chiesa: alla sera e durante la consacrazione eucaristica della Messa. Mi sembra che queste preghiere non solo non siano in contrasto con i due punti visti sopra, ma che li richiedano e li confermino.
Avverto nella Chiesa, tra i fedeli, un tasso di conflittualità francamente preoccupante. So che i cristiani sono sempre stati divisi, fin dai tempi apostolici, ma oggi noto un astio che mi procura molta amarezza. Condividi la mia impressione o pensi che io stia esagerando? E come si può operare in modo da dare testimonianza della Verità senza però alimentare il conflitto tra fratelli nella fede?
Non si può difendere la verità senza dare fastidio. Chi non vuole dare fastidio a nessuno sta zitto, come tanti fanno oggi, anche nella sfera ecclesiastica. A questo proposito rimane aperto il problema se si stia zitti per non dare fastidio o per evitare fastidi. Permettimi un piccolo esempio. Nei giorni scorsi il vescovo di Trieste, monsignor Crepaldi, ha denunciato le bestemmie e le profanazioni pubbliche verificatesi in modo evidentemente pianificato durante il Natale. Non ho sentito nessun altro vescovo denunciare un manifesto in cui Gesù Cristo veniva presentato come un pedofilo, o un video in cui Giuseppe estraeva il Bambino dall’utero di Maria. Tutti questi vescovi che tacciono, mi chiedo, lo fanno per non dare fastidio o per non crearsi fastidi? Questo non crearsi fastidi non lo intendo solo come fastidi privati e personali (per un vescovo può significare essere trasferito, o emarginato dai suoi confratelli della regione ecclesiastica di appartenenza, oppure bloccato nella carriera), ma anche come fastidi nell’annuncio, ossia come conciliazione col mondo. Si tende a stare zitti o semmai a denunciare le cose che anche Repubblica, il TG1 o Fabio Fazio denunciano. Questa però significa la resa senza condizioni e senza applausi, perché il mondo, quando ti sei inginocchiato, non ti applaude, ma passa oltre sulla sua strada.
Ciò che bisogna evitare è la polemica, ciò che bisogna bypassare è il dialogo, ciò che bisogna cercare è la disputa. Sia dentro la Chiesa, sia col mondo, va cercata la disputa, che è l’unica a non abbandonare il dialogo alla chiacchiera. La disputa non alimenta il conflitto tra i fratelli nella fede. Ma purtroppo è proprio la disputa oggi a essere evitata dall’establishment ecclesiastico. Io la cerco, ma non sono corrisposto, anzi quando la cerco sento di essere considerato un guastafeste e un presuntuoso. Del resto capisco anche che ormai la confusione dei codici e dei linguaggi è tale che disputare diventa quasi impossibile. Se io uso la parola “natura” secondo Aristotele e Tommaso e l’altro la usa nel senso di Rahner e Schilleebekx, come diceva Pirandello, “crediamo di intenderci e non ci intendiamo mai”. Non si comprende adeguatamente che oggi nella Chiesa si parlano lingue diverse, che non si incontrano perché si collocano a livelli diversi. E così ritorniamo alle cause remote e ai tempi lunghi. Ci sono un alfabeto e una sintassi da ricostruire.
A cura di Aldo Maria Valli
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