Cari amici di Duc in altum, vi propongo la lettera che mi è stata inviata da un gentile lettore. Racconta di uno sconcertane elogio della convivenza scritto da un prete (cattolico).
A.M.V.
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Caro Aldo Maria, le voglio raccontare che cosa mi è capitato.
Una chiesa di una città del Nord Italia, ore 7:30 del mattino. Uscendo dal confessionale, prendo da un tavolino un foglio lì depositato. Riporta un testo scritto dallo stesso sacerdote che mi ha appena confessato e che mi ha lasciato perplesso perché, prima di darmi l’assoluzione, non mi ha chiesto di recitare l’Atto di dolore.
Titolo: Convivenza o matrimonio? Spunti di consolazione per genitori. Potete leggere il testo qui sotto. Da parte mia dico solo che sono rimasto veramente turbato dalla naturalezza con cui questo sacerdote incoraggia la convivenza, da lui definita una “scelta saggia”: ecco un fulgido esempio, mi sembra, di “religione umanitaria”, secondo il classico paradigma modernista. L’argomentazione è tutta giocata sul filo del “no, ma..”, “vero, però…” e la realtà del matrimonio cattolico è definita “un ideale” . È la puntuale applicazione della grammatica di Amoris laetitia.
Scrive dunque il sacerdote: “Molti anni fa incontrai un missionario che da anni viveva tra gli indigeni delle isole del Borneo. Mi disse che presso quelle popolazioni le coppie di solito non si sposano, ma si mettono insieme, convivono per qualche anno. Solo dopo aver convissuto, si sposano. Se dopo un periodo di convivenza decidono di separarsi e ritornare liberi, lo fanno tranquillamente. Se nel frattempo sono nati dei figli, fanno come facciamo anche noi, in casi analoghi: se li tengono e li seguono. Un altro missionario mi diceva che in alcune zone dell’Africa non si fanno matrimoni se non sono già nati dei figli. Motivo: a difesa della donna che rischierebbe d’essere cacciata e senza altra possibilità di vita e di sussistenza. Questo tipo di matrimonio, preceduto da un periodo di convivenza, mi era sembrato, allora, un sistema primitivo, bislacco, senza senso. Ora non ne sono più tanto sicuro. Ha una sua logica e una sua sapienza. Non dico che la convivenza sia l’unica o la forma migliore per prepararsi al matrimonio. Ma ci può far riflettere. Se qualche anno fa una coppia di fidanzati mi avesse detto che sarebbe andata a convivere, senza sposarsi né in chiesa né in comune, sarei rimasto interdetto e qualche dubbio sulla loro serietà me lo sarei posto. Oggi, con una media del 30% di coppie sposate che divorziano, a volte con figli, mi rendo conto che un periodo di convivenza non solo non è da impedire, ma in certi casi potrebbe rivelarsi una scelta saggia. Se due ragazzi non sono ben convinti che il matrimonio sia la scelta giusta e una approfondita riflessione li porta verso la convivenza, fanno bene a non sposarsi. In alcuni casi la scelta di convivere non è determinata da dubbi sulla buona riuscita della loro unione, quanto sul rifiuto di pubblicità, di sentirsi in obbligo di celebrare apertamente e proclamare in pubblico una decisione che sentono come molto intima e personale: la scelta di mettersi insieme e volersi bene. Il matrimonio è vita; coinvolge tutta la vita e comporta impegni e sacrifici che non si possono affrontare se non con una grande carica di entusiasmo interiore. Iniziare una vita insieme, per due giovani che nutrissero dei dubbi sulla buona riuscita del loro matrimonio, non sarebbe il massimo per affrontare una vita insieme serenamente. Sono talmente tante le incognite che si presentano nel corso di una vita di matrimonio, che è un miracolo di Dio se due continuano per anni a stare insieme”.
Prosegue il sacerdote: “Non c’è dubbio che Gesù sia per l’indissolubilità del matrimonio; ma la domanda che mi pongo è: Gesù parla del matrimonio indissolubile come di una legge divina che non può in nessun caso essere violata, oppure parla della indissolubilità del matrimonio come di un ideale da perseguire, a cui tendere per la felicità della coppia stessa? […]. E se una persona, anche una sola, ci vuole bene per tutta la vita è una cosa grandiosa; la forza più grande del mondo: questo amore è immagine di Dio. Se, al contrario, questo ideale della indissolubilità non fosse possibile a una coppia, e quindi non si potesse raggiungerlo, non per questo si deve “scomunicare” i due, o impedire che possano sentirsi cristiani e praticanti come gli altri. Vanno aiutati e accolti comunque in comunità, se lo desiderano. Oltretutto una famiglia che si sgretola soffre già per suo conto e paga per questa divisione; non è il caso che anche il prete (la Chiesa) infierisca sulla ferita con divieti e ostracismi. La conclusione non è: allora è meglio convivere che sposarsi! Guardiamo piuttosto la convivenza come un cammino verso il matrimonio sancito da un impegno pubblico civile o religioso. Se dobbiamo salvare i valori del Vangelo, il primo valore da salvare non è il matrimonio e neppure l’indissolubilità, ma la persona, la vita, la speranza, la gioia, l’amore”.
Ora, io mi domando: quali conseguenze avrà questo insegnamento sulle scelte dei giovani che malauguratamente lo leggeranno? Penso ai quattro o cinque adolescenti eroi che partecipano alla Messa del mattino alle sette.
Sottolineo il fatto che per giustificare il suo incredibile elogio della convivenza il sacerdote fa riferimento a quanto gli raccontarono tempo fa alcuni missionari nel Borneo, dove a quanto pare ci sono popolazioni tra le quali la convivenza è praticata. È il modello “sinodo amazzonico”: se una cosa la fa il buon selvaggio vuol dire che è una cosa buona in sé.
Il punto che mi fa soffrire di più e là dove si sostiene che il matrimonio cattolico, indissolubile, è solo un ideale. Ogni riferimento all’obbedienza della legge divina è semplicemente sparito, liquidato.
Ricordo che in Veritatis splendor (n. 103) san Giovanni Paolo II scrive: “È nella Croce salvifica di Gesù, nel dono dello Spirito Santo, nei Sacramenti che scaturiscono dal costato trafitto del Redentore (cf Gv 19, 34), che il credente trova la grazia e la forza per osservare sempre la legge santa di Dio, anche in mezzo alle difficoltà più gravi […]. Solo nel mistero della Redenzione di Cristo stanno le concrete possibilità dell’uomo. Sarebbe un errore gravissimo concludere che la norma insegnata dalla Chiesa è in se stessa solo un ‘ideale’ che deve poi essere adattato, proporzionato, graduato alle, si dice, concrete possibilità dell’uomo: secondo un ‘bilanciamento dei vari beni in questione’. Ma quali sono le ‘concrete possibilità dell’uomo’? E di quale uomo si parla? Dell’uomo dominato dalla concupiscenza o dell’uomo redento da Cristo? Poiché è di questo che si tratta: della realtà della redenzione di Cristo. Cristo ci ha redenti! Ciò significa: Egli ci ha donato la possibilità di realizzare l’intera verità del nostro essere; Egli ha liberato la nostra libertà dal dominio della concupiscenza. E se l’uomo redento ancora pecca, ciò non è dovuto all’imperfezione dell’atto redentore di Cristo, ma alla volontà dell’uomo di sottrarsi alla grazia che sgorga da quell’atto. Il comandamento di Dio è certamente proporzionato alle capacità dell’uomo: ma alle capacità dell’uomo a cui è donato lo Spirito Santo; dell’uomo che, se caduto nel peccato, può sempre ottenere il perdono e godere della presenza dello Spirito”.
Lucio Foppiani
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