Cari amici di Duc in altum, mentre l’Italia intera, nel tentativo di contrastare l’avanzata del coronavirus, è stata dichiarata zona protetta, continua il dibattito circa la decisione della Conferenza episcopale italiana di sospendere la celebrazione delle Messe pubbliche. I vescovi hanno applicato in maniera restrittiva l’indicazione del governo? E, così facendo, hanno privato i fedeli del diritto di culto? E perché impedire ai fedeli di andare a Messa quando invece, per esempio, pur con alcune limitazioni, si può andare al bar e al ristorante?
In proposito ho chiesto un’opinione a Laura Sgrò, avvocato della Rota Romana e patrocinante presso la Corte d’appello dello Stato della Città del Vaticano.
A.M.V.
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«Come se il cristiano potesse esistere senza celebrare i misteri del Signore o i misteri del Signore si potessero celebrare senza la presenza del cristiano! Non sai dunque, satana, che il cristiano vive della celebrazione dei misteri e la celebrazione dei misteri del Signore si deve compiere alla presenza del cristiano, in modo che non possono sussistere separati l’uno dall’altro? Quando senti il nome di cristiano, sappi che si riunisce con i fratelli davanti al Signore e, quando senti parlare di riunioni, riconosci in essa il nome di cristiano» (Martire Felice).
Anno 303 d.c., regna l’imperatore Diocleziano.
Al tempo, Abitene era una città della provincia romana detta Africa proconsularis, nell’odierna Tunisia, situata, secondo un’indicazione di sant’Agostino, a sud ovest dell’antica Mambressa, oggi Medjez el–Bab, sul fiume Medjerda.
L’imperatore Diocleziano ordinò una persecuzione violenta nei confronti dei cristiani, stabilendo, tra le altre cose, che si “doveva proibire di celebrare i sacri riti e le santissime riunioni del Signore” (Atti dei Martiri, I).
Quarantanove cristiani ad Abitene decisero che a quel precetto dell’imperatore non si poteva obbedire.
“Sine dominico non possumus”. Così i martiri di Abitene si difesero: non si può, cioè, né essere né tanto meno vivere da cristiani senza riunirsi la domenica per celebrare l’Eucaristia. E morirono, pur di non rinnegare la loro fede nel Cristo risorto e non mancare all’incontro con Lui nella celebrazione eucaristica domenicale.
Anno 2020 d.c., regna la paura.
Il decreto della presidenza del Consiglio dei ministri dell’8 marzo, a causa dell’emergenza del coronavirus, sospende a livello preventivo, fino a venerdì 3 aprile, sull’intero territorio nazionale “le cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri”.
La Cei, dimentica del dettato del canone 838 del Codice di diritto canonico che sancisce che spetta «unicamente all’autorità della Chiesa» regolare la sacra liturgia, ritiene che l’interpretazione fornita dal governo includa rigorosamente le Sante Messe e le esequie tra le “cerimonie religiose”.
Ma il decreto non ha parlato di Santa Messa, l’interpretazione restrittiva l’ha fatta la Cei, che avrebbe ben potuto mantenerla in virtù del canone sopra citato, e dettare delle norme ad casum per contrastare la diffusione del coronavirus.
C’è, infatti, una distanza incommensurabile tra una precauzione, seppure dura ed estrema, e la negazione di un gesto.
La Messa è stata negata, infatti, non solo a chi ci va per costumanza decennale, ma anche a chi, sebbene sia stato lungamente latitante da tabernacoli e inginocchiatoi, adesso ha bisogno di questo inusuale e salvifico refrigerio.
La vita cristiana nasce dall’Eucarestia e dell’Eucarestia si nutre. Per questo la Santa Messa andava difesa, a qualunque costo.
Al tempo del coronavirus i martiri di Abitene l’avrebbero fatta franca.
Laura Sgrò