Cari amici di Duc in altum, con piacere vi propongo questa intervista esclusiva a monsignor Carlo Maria Viganò. Numerosi i temi affrontati. Si parte da argomenti d’attualità e recenti iniziative di Francesco per arrivare a questioni di fondo riguardanti la Chiesa e il pontificato in corso.
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Monsignor Viganò, come sappiamo, nell’edizione 2020 dell’Annuario pontificio c’è un cambiamento che colpisce e preoccupa. Proprio nelle prime pagine, dove viene presentato il papa regnante, campeggia il nome del pontefice, Jorge Mario Bergoglio, seguito da una breve biografia e poi, sotto la definizione di “titoli storici”, c’è l’elenco dei termini che connotano l’identità spirituale, religiosa e giuridica del romano pontefice: Vicario di Gesù Cristo, Successore del Principe degli Apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa Universale, Primate d’Italia, Arcivescovo e Metropolita della Provincia Romana, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano e Servo dei Servi di Dio. Se si confronta questa presentazione con quella dell’Annuario pontificio 2019 si nota subito un cambiamento che non è soltanto di impostazione grafica. Fino all’anno scorso, infatti, prima di tutto, in caratteri grandi, veniva il titolo di Vicario di Gesù Cristo, poi, in caratteri più piccoli, c’erano gli altri titoli e poi ancora veniva il nome del papa regnante, seguito dalla biografia essenziale.
Molti di noi hanno visto nella decisione di Francesco la conferma di una tendenza costante in questo Pontificato: mettere al primo posto l’uomo Bergoglio, con le proprie idee, e non il Papa in quanto Servus servorum Dei. Tutto ciò sembra lampante, eppure tantissimi cattolici a fronte di queste innovazioni sottolineano la presunta “umiltà” del papa, che così si spoglierebbe di prerogative divine che non gli appartengono.
Non crede che questa “umiltà” di Francesco, da tanti osannata, meriti un approfondimento? Molti dei suoi gesti e delle sue decisioni (fra le più note ed evidenti, abitare a Santa Marta e non indossare mai la mozzetta rossa con il rocchetto) sono state salutate come prove di umiltà. Ma che cosa sono veramente?
Lei ha parlato giustamente di “mettere al primo posto l’uomo Bergoglio, con le proprie idee”: credo sia proprio questo uno degli elementi che meriterebbero un’attenta analisi da parte di tanti miei Confratelli. La dissociazione tra la persona Papae e la persona fisica di Bergoglio è la caratteristica di questo Pontificato; anche in passato vi fu un tentativo di questo tipo, nel caso di Giovanni Paolo II, ma fu in larga misura ad opera dei media, i quali cercavano di mostrare un “Papa dal volto umano”, sportivo…
La spettacolarizzazione del Papato a cui assistiamo oggi, invece, è di altra natura: essa parte da Bergoglio stesso, che rifiuta con ostentazione di comportarsi da Papa, di indossarne le vesti, di averne il linguaggio prudente e saggio, di adottarne i titoli. In una società sempre più sensibile al potere dell’immagine il modo di mostrarsi è quantomai importante, perché veicola un messaggio ben preciso.
Per quanto riguarda la presunta umiltà che molti Cattolici vedono in questi gesti, penso sia il caso di fare anzitutto un po’ di chiarezza.
L’umiltà è la virtù che ci permette di conoscere noi stessi e di stimarci secondo il giusto valore, e che è contraria a ogni forma di ostentazione e vanità. Fondamento dell’umiltà sono la verità, che ci porta a conoscerci come veramente siamo; e la giustizia, che ci inclina a trattarci conformemente a questa conoscenza. L’umiltà esteriore dev’essere ovviamente la manifestazione di un abito interiore, altrimenti è solo ipocrisia. E non dev’essere ostentata, altrimenti dà scandalo ai semplici. Le faccio un paio di esempi. Quando il Patriarca di Venezia Giuseppe Sarto – futuro San Pio X – viaggiava in treno, saliva in prima classe come si conveniva a un Principe della Chiesa, ma viaggiava in terza. Nessuno lo sapeva, non c’erano fotografi ad immortalarlo. Pio XII, che ognuno di noi ricorda per la sua figura ieratica, aveva una camera da letto poverissima, e spesso dormiva per terra, per penitenza; ma non si sarebbe mai sognato di recarsi in visita al Quirinale su una utilitaria, né si sarebbe gettato ai piedi di alcun rappresentante di un potere terreno, perché era ben consapevole della sacralità della propria funzione e del fatto che il Romano Pontefice è, per mandato divino, superiore a qualsiasi autorità umana. Lo abbiamo visto, il 14 luglio 1943, accorrere nel quartiere popolare di San Lorenzo subito dopo il bombardamento degli Alleati su Roma, a rincuorare il popolo, ma sempre con la gravità e la compostezza del Vicario di Cristo. Diremmo che San Pio X e Pio XII non erano umili? Ecco: questa è l’umiltà di un Papa, che non ha bisogno né di esser ostentata, né di venir immortalata dai reporter, né elogiata dai cortigiani. Perché il suo riferimento è Dio e non cerca un’eco mediatica.
Chi loda Francesco pensa evidentemente che l’umiltà si contrapponga non all’orgoglio, ma al decoro e alla dignità della funzione ricoperta. Sarebbe umile il gesto di Francesco che sottrae la mano a chi vorrebbe baciargli l’anello, o l’uso di una utilitaria al posto della vettura di rappresentanza, o la foto casualmente scattata mentre il Papa va a comprarsi le scarpe a Borgo Pio. In questa loro valutazione emerge un malcelato compiacimento, come se si volesse rimproverare agli altri d’esser superbi, per il solo fatto di seguire il protocollo o di aver consapevolezza della dignità del ruolo che ricoprono nella Chiesa. Dietro tutto ciò, come si vede, non c’è alcuna umiltà, ma il perseguimento di uno scopo narcisistico e politico: non si vuole dare un esempio edificante, ma piacere al mondo.
Mi pare sia venuto il momento di interrogarci seriamente circa l’impasse canonica nella quale ci siamo lasciati condurre da questa dissociazione tra il munus e chi lo ricopre: non si può pretendere obbedienza nei confronti del Papa se, allo stesso tempo, chi si siede sul soglio si comporta come se non lo fosse; perché così facendo si opera una vera e propria mistificazione, si gioca con l’obbedienza e con il senso gerarchico dei fedeli, ma contemporaneamente ci si considera liberi battitori, svincolati da qualsiasi dovere e limite che il Papato impone.
Il Papa non può prescindere dal riconoscimento del proprio munus: egli deve esprimere l’umiltà proprio nel sapersi comportare senza eccentricità né stravaganze. E questa moda di ostentare umiltà è contagiosa: un Vescovo che entra in Cattedrale in bicicletta o che si fa chiamare padre e non Eccellenza non è umile, ma ridicolo ed egocentrico, perché con lo stupore attira l’attenzione su di sé.
Sant’Isidoro di Siviglia, che abbiamo ricordato alcuni giorni orsono nella liturgia, dice che un Prelato «deve sovrintendere con pari umiltà ed autorità, in modo che né renda cronici i vizi dei sudditi per troppa umiltà, né eserciti il proprio potere con eccesso di severità; ma agisca nei confronti di coloro che gli sono affidati con tanto maggior cautela, quanto più severamente teme di esser giudicato da Cristo» (Sant’Isidoro di Siviglia, Liber Officiorum II, Ad Sanctum Fulgentium, 5).
San Benedetto ci insegna che uno dei principali atti esterni con cui si manifesta l’umiltà è la fuga dalla singolarità: non far nulla di straordinario, limitandosi a ciò che è richiesto dal proprio stato, dagli esempi dei predecessori e dalle legittime consuetudini. Ritengo che quella che a Santa Marta è considerata umiltà sia solo una maldestra ostentazione di singolarità. Anzi, il proporre come modello la stravaganza porta con sé anche un implicito disprezzo per la propria funzione sacra, e quindi alla mancanza di umiltà si aggiunge il peccato contro la virtù di giustizia e di religione.
Non è un caso che proprio chi è tanto entusiasta della Ford Focus di Bergoglio usi le sue eccentricità come un modo per smitizzare il Papato, ossia per umiliarlo, per abbassarlo a ciò che per sua stessa essenza non può e non deve essere. A chi si bea dell’abolizione del titolo di Vicario di Cristo non importa nulla dell’umiltà del Papa; importa solo il perseguimento di un mirato disegno politico volto a demolire la Chiesa e le sue istituzioni più venerande, allineandosi al pensiero mainstream.
Nell’omelia della Messa celebrata a Santa Marta venerdì 3 aprile Francesco è tornato a ribadire che Maria è solo donna, madre e discepola, “una di noi”, senza alcun titolo di regalità. Lo aveva già fatto il 12 dicembre dell’anno scorso, quando aveva aggiunto che Maria è “meticcia” e che non c’è alcun bisogno di riconoscerLe un ruolo nell’opera della Redenzione. Ora viene da chiedersi: perché tanta ostinazione da parte di Francesco su questo punto? È chiaro che lui è contrario alla promulgazione di un eventuale dogma che riconosca Maria come Corredentrice. Ma al di là di questa sua convinzione si nota una tendenza – qualcuno ha giustamente parlato di “minimalismo mariano” – che ferisce la coscienza di tanti cattolici, nutrita da secoli di Tradizione. Tanto più che a un’altra figura femminile, la cosiddetta pachamama, in Vaticano è stato invece tributato un culto che provoca sgomento. Un’ipotesi è che Francesco assuma tali posizioni “minimaliste” per favorire la riunione con i Protestanti; ma, se anche così fosse, sembra una strategia folle da parte del Papa: negare il ruolo corredentivo della Madre di Gesù, e negare la sua regalità, per ottenere che cosa? Un miglioramento nelle relazioni con confessioni religiose che sono in stato comatoso? Sembra davvero fuori da ogni logica.
In questa sua domanda ci sono due elementi che meritano attenzione. Il primo è l’atteggiamento nei riguardi della Beata Vergine; il secondo è dato dalle convinzioni dottrinali che esso veicola.
I fedeli – e lo stesso Clero – sono scandalizzati dal modo in cui Bergoglio parla della Madonna, dalla disinvoltura con cui si permette di sminuire e umiliare la Sua santissima persona, senza mai usare i titoli che Le spettano e guardandosi bene dal ribadire l’insegnamento costante della Chiesa. Entrando nel merito delle sue esternazioni, abbiamo la percezione di un’insofferenza di Francesco nell’onorare la Regina del Cielo, e questo è un segno rivelatore che dovrebbe seriamente preoccupare. Se questa irriverenza scaturisce dal desiderio di compiacere gli eretici, questa è un’aggravante, e non una scusa; anzi direi che se l’ecumenismo implica di disonorare la Vergine e tacere le verità cattoliche per compiacere chi è nell’errore, abbiamo una prova ulteriore che l’ecumenismo non piace a Dio.
C’è un altro aspetto che vorrei evidenziare: la negazione di dogmi e di verità teologiche, anche non solennemente definite, implica una conseguenza estremamente distruttiva, perché la Verità – che è Dio stesso – non può avere parti sacrificabili. Se si tocca un dogma apparentemente marginale rispetto a quelli trinitari o cristologici, si tocca l’intero edificio dottrinale. E mi permetto di ricordare che, assieme agli orrori sul meticciato mariano, abbiamo anche sentito spropositi sulla divinità stessa di Cristo, surrettiziamente insinuati dalle interviste concesse a un quotidiano notoriamente anticattolico.
Quanto alla maledetta pachamama, è evidente che si va concretizzando una progressiva sostituzione della Madre di Dio con la Madre Terra, in ossequio alla religione mondialista ed ecologista. Stiano molto attenti costoro a prendersi gioco della Vergine: le offese che Nostro Signore perdona quando sono rivolte a Lui, non le perdona se hanno come oggetto la Sua Santissima Madre.
La celebrazione del 27 marzo, quando Francesco ha parlato davanti a una piazza San Pietro deserta, è stata salutata da molti come un grande momento di preghiera, con il quale il Papa ha saputo interpretare il sentimento del popolo cattolico. Altri – e Lei è tra questi – vi hanno visto invece un’altra prova del protagonismo di Bergoglio: una rappresentazione a uso mediatico e anche una profanazione, visto che il Santissimo è stato esposto in una basilica, San Pietro appunto, che non è stata mai riconsacrata dopo il sacrilegio avvenuto a causa del culto tributato alla pachamama. Non le nascondo che un giudizio come il Suo mi è sembrato molto duro. Personalmente sarei propenso a cogliere il bene che c’è in ogni situazione. In quella celebrazione non tutto mi ha convinto. Mi è dispiaciuto che Francesco davanti al Santissimo non si sia inginocchiato nemmeno per un attimo e mi sono subito chiesto come avessero potuto pensare di esporre alle intemperie l’antico Crocifisso di San Marcello, che poi in effetti è rimasto danneggiato. Tuttavia ho seguito la preghiera in televisione e ho adorato il Santissimo insieme al Papa. Ho fatto male? Sono caduto in una trappola?
Veder entrare nella Basilica Vaticana la pachamama e le sue insegne, portata a spalle da Vescovi e Prelati, è un gesto talmente inaudito e vergognoso che in altri tempi avrebbe probabilmente suscitato la furia del popolo e l’ira del Clero. Un tale sacrilegio, sotto un punto di vista canonico, va riparato con un rito di riconsacrazione di San Pietro che non è stato ancora compiuto. Fino a quel momento, tutte le funzioni liturgiche che vi si celebrano aggiungono sacrilegio a sacrilegio. D’altra parte, riconsacrare la Basilica significherebbe riconoscere la gravità dell’atto idolatrico e sconfessare chi lo ha autorizzato. Ricordo che, dopo che gli idoli furono gettati nel Tevere, Bergoglio si scusò con chi si fosse sentito offeso da quell’azione, mentre non prese minimamente in considerazione la grave offesa arrecata alla Maestà di Dio, ai Ministri sacri e al sentimento dei fedeli.
Quanto allo stare seduto dinanzi al Santissimo Sacramento, questa è un’abitudine costante di Francesco in tutte le celebrazioni alle quali è presente, a iniziare dal Corpus Domini, che egli stesso diserta con ostentazione e insofferenza. Non stupisce che questa enfasi sull’umiltà del Papa ricorrente nella narrazione dei cortigiani si dissolva proprio nell’unica occasione in cui tanto il Papa quanto Bergoglio potrebbero davvero umiliarsi, ossia inginocchiandosi davanti al Santissimo Sacramento.
Il primo modo di esprimere umiltà, infatti, è nei riguardi di Dio, e il modo più semplice e comprensibile è quello che ci insegna la Sacra Scrittura e l’esempio della Chiesa: inginocchiarsi. D’altra parte, se quel gesto non avesse senso, non si capisce per quale motivo Francesco non abbia problemi a farlo al cospetto di capi di Stato o di galeotti.
Infine, per rispondere alla Sua domanda, credo che tanto Lei quanto tutti i Cattolici si siano inginocchiati per adorare l’Emanuele, il Dio con noi, e non per assecondare lo squallore tetro che ha accompagnato quel rito. Le parole dell’Adoro Te, composte da San Tommaso, hanno compendiato i sentimenti di tutti noi: Tibi se cor meum totum subjicit, quia, te contemplans, totum deficit. Tutto il mio cuore si sottomette a Te, perché nel contemplarTi tutto il resto viene meno.
In questa Pasqua segnata dalla pandemia stiamo vivendo i riti dalle nostre case, servendoci dei mass media. La creatività è venuta in soccorso e i fedeli, nonostante tutto, riescono a seguire le Messe, a pregare, a mantenere i contatti. Non voglio tornare sulla sospensione delle Messe con il concorso di pubblico. Le voglio invece chiedere: secondo Lei, che cosa ci sta dicendo il Signore con questa situazione del tutto inedita?
Il Signore ci manda un messaggio molto chiaro: Sine me nihil potestis facere (Gv 15, 5). Se non ci persuadiamo che i nostri peccati – come ho spiegato recentemente – sono colpi di martello con cui crocifiggiamo ancora una volta Nostro Signore, sputi sul Suo adorabile Volto, non possiamo pentirci, chiedere perdono e riparare queste colpe. Lo dobbiamo capire noi, lo devono capire le Nazioni, lo deve capire la Gerarchia.
E dobbiamo anche capire che la privazione dei Sacramenti e della Messa in tutto il mondo è una punizione ulteriore per la nostra infedeltà, per i sacrilegi che vengono compiuti quotidianamente nelle nostre chiese dall’indifferenza di tanti Ministri di Dio, dalle profanazioni derivanti dalla Comunione in mano, dalla sciatteria delle celebrazioni. Alla voce composta e pura della Liturgia si è sostituito lo strepito volgare e profano: come possiamo sperare che la nostra preghiera sia gradita al Cielo?
Non sono pochi i fedeli i quali, anche alla luce di alcune rivelazioni pubbliche e private, ritengono che l’attuale pandemia sia solo l’inizio di una serie di prove che evocano le piaghe d’Egitto. Molti altri invece ritengono che ragionare così sia assurdo, perché Dio non può punire. Lei di recente ha esortato a prendere in considerazione la questione del peccato originale, che non può essere dimenticata. Come possiamo vivere questa prova nella consapevolezza del bisogno di conversione ma, nello stesso tempo, senza lasciarci schiacciare dall’angoscia?
Come Cristiani sappiamo che le croci e le prove che il Signore ci manda non sono mai superiori alle nostre forze, soprattutto se lasciamo che sia Lui ad aiutarci, con la Sua grazia, a portarle. Dobbiamo quindi anzitutto riconoscere la prova come una punizione severa di un Padre giustamente offeso, ma che ci vuole spronare alla conversione; in secondo luogo dobbiamo adorare la volontà di Dio e la Sua divina Misericordia, che ci dà un’opportunità preziosa per darGli prova del nostro ravvedimento e che ci consente non solo di espiare le nostre colpe, ma anche quelle di quanti non sanno quello che fanno.
Sono giorni difficili, non solo a causa della pandemia, ma anche per questa sensazione di incertezza e di paura per un’incombente sciagura. Non lasciamoci sedurre da chi cerca di privarci della pace interiore: siamo il tempio dello Spirito Santo, e se siamo in grazia di Dio nella nostra anima abita la Santissima Trinità. Cerchiamo di rendere questa dimora meno indegna, con una preghiera più accorata e fiduciosa. Abbiamo un’Avvocata invincibile: la Vergine Santissima; chiediamo a Lei, Consolatrice degli afflitti, di intercedere per noi presso il Trono dell’Altissimo, a Lei che ha partecipato alla nostra Redenzione in virtù della Sua specialissima unione col Suo divin Figlio, e che presso di Lui è nostra Mediatrice.
Lunedì della Settimana Santa 2020
(a cura di Aldo Maria Valli)