Verità addio. Nella Chiesa di Francesco trionfa il nominalismo
Cari amici di Duc in altum, dopo i precedenti interventi di monsignor Carlo Maria Viganò (vedi qui) e mio (qui), desidero tornare, per la sua oggettiva gravità, su quanto si legge nell’Annuario pontificio 2020, dove, proprio in apertura, il titolo di “Vicario di Cristo” riferito al romano pontefice viene messo fra i “titoli storici” e retrocesso, anche graficamente, in posizione defilata, dopo il nome (questo scritto in grande) del papa regnante.
Come osserva Silvio Brachetta nel contributo che qui vi propongo, siamo ormai in pieno storicismo e neo-nominalismo. Siamo alla teologia delle etichette. Niente più sostanza, niente più stabilità, niente più verità: solo nomi frutto delle contingenze storiche, solo definizioni transeunti perché soggette alle leggi del divenire.
Il fatto che pochi giorni fa sia tornato al Signore il caro monsignor Antonio Livi, forse l’ultimo strenuo difensore della metafisica tomista, rende il quadro ancora più desolato.
A.M.V.
***
Ecco ricomparire il nominalismo d’oltretevere: la teologia dell’etichetta
È dunque ufficiale: la Chiesa docente del XXI secolo ha sdoganato anche il nominalismo. Il buon vecchio nominalismo occamiano, che ha distrutto la Scolastica e inaugurato la modernità scettica.
I fatti sono abbastanza noti. Il nuovo Annuario pontificio (edizione 2020) derubrica i titoli che descrivono l’essenza di un Papa a puri «Titoli storici», ovvero a semplici nomi. In particolare, i titoli di «Vicario di Cristo», «Successore del Principe degli Apostoli», «Sommo Pontefice della Chiesa Universale», «Primate d’Italia, «Arcivescovo e Metropolita della Provincia Romana», «Sovrano dello Stato della Città del Vaticano», «Servo dei Servi di Dio» non esprimono più – secondo la Chiesa docente odierna – una sostanza, ma un semplice nome. Nominalismo, appunto.
In realtà l’ultima iniziativa d’oltretevere è un coacervo di nominalismo e di storicismo, raffazzonati in modo grossolano. Un miscuglio che prende due piccioni con una fava e fa implodere il già tenue connubio fede-ragione.
La nozione di «Vicario di Cristo», ad esempio, che si applica solo al Pontefice, fa la stessa brutta fine del dogma cattolico: non è più una «nozione», un «concetto» – proprio della sostanza – ma un nome, un titolo, un’etichetta, che ha valore solo per un determinato periodo storico, come da perfetta mentalità storicista. Dal punto di vista della filosofia moderna, si tratta di una sorta di heideggerismo, laddove l’essere coincide con il tempo, al netto dei sofismi esistenzialisti. Ciò che doveva rimanere fermo nella verità, fluttua e si sposta assieme alle lancette dell’orologio.
La nuova teologia, infatti, su cui oggi si pretende di fondare il magistero, è una teologia dell’etichetta, una teologia del supermercato. Così come l’etichetta o la marca di un sapone può essere sostituita a piacere da un’altra, allo stesso modo la nozione di «Vicario di Cristo» è transeunte e dipende solo dal costume, dalla moda di un certo periodo storico. Non esprime una verità e nemmeno una mezza verità, ma solo un percorso che, illusoriamente, dovrebbe portare a una verità imprecisata, in un futuro indefinito.
Siamo al trionfo di Umberto Eco e del suo neo-nominalismo: «Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus», «La rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi». Nient’altro possediamo. Solo nomi ed etichette, non sostanze.
Siamo pure al trionfo di Giorgio Caproni, con una punta di nichilismo: «Buttate pure via ogni opera in versi o in prosa. Nessuno è mai riuscito a dire cos’è, nella sua essenza, una rosa». Quando noi, cioè, diciamo e indichiamo una «rosa», non dichiariamo nulla di essenziale perché – nell’orizzonte di questa pseudo-filosofia (e pseudo-teologia) – la verità sulla rosa non può essere né percepita, né tantomeno espressa a parole: l’etichetta di un sapone non dice nulla del sapone; e l’etichetta «rosa» non dice nulla dell’oggetto misterioso nascosto sotto il fenomeno della rosa. E qua c’è Kant, che dà il colpo di grazia alla certezza metafisica aristotelica e tomista: il fatto che l’uomo abbia accesso ai fenomeni non garantisce nulla circa l’esistenza della «cosa in sé» (noumeno) oltre il fenomeno.
Il disastro avviene quando si passa dalle verità naturali e fisiche a quelle metafisiche e rivelate. Nel quadro nominalista e storicista ogni parola – fosse anche la Parola di Gesù Cristo – non esprime alcun concetto fermo, alcuna essenza, per l’incapacità umana di raggiungere l’essenza medesima delle cose (anche delle cose spirituali). Si crea una frattura, di tipo protestante, tra il fenomeno Gesù e il Verbo eterno, tra il Cristo della storia e il Cristo della fede. Il magistero, soprattutto preconciliare, ha tentato invano di porre un argine a questa follia ermeneutica. I seminari si sono impregnati di suggestioni esistenzialiste, nominaliste e storiciste, con il risultato di produrre un sacerdozio riformato, del tutto incline alla pura dimensione orizzontale e secolare del vivere.
Al crollo della fede (già in crisi almeno per tutto il Novecento) è seguito a ruota il crollo della ragione. Di questo progressivo venir meno dei pastori ai danni dei fedeli laici non occorre dare eccessive spiegazioni, tanto la pubblicistica ne ha trattato diffusamente. Sarebbe, infatti, riduttivo parlare di crisi della fede. Si tratta, invece, di un tramonto della fede e, per via di un’inseparabilità originaria, della ragione.
Non s’intravvede, per ora, alcun recupero del senno perduto, specialmente dopo vicende simili a quelle del summenzionato Annuario pontificio. La Pasqua 2020, flagellata dall’epidemia, è da ricordare e tramandare come una Pasqua disincarnata. Non ci sono più argomenti di certezza che possano identificare il Carpentiere di Nazareth, crocifisso nella Giudea Procuratoria del primo secolo, con il Figlio di Dio resuscitato.
Rimane la sola fede, in senso luterano, che non ha mai convinto troppo. Dall’altra parte, rimane la sola ragione debole, in senso moderno, che reputa la resurrezione troppo miracolosa, troppo incomprensibile. Della Croce, in fondo, non rimane niente più che il nudo nome: «Stat Crux pristina nomine, nomina nuda tenemus».
Silvio Brachetta