Aldo Maria Valli (Rho, 3 febbraio 1958) è un giornalista e saggista italiano. Laureato in Scienze politiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi in Teoria e tecnica dell’informazione (relatore il professor Angelo Narducci), nel 1978 diventa pubblicista e nel 1986 giornalista professionista. Dal 1980 al 1984 è redattore dell’editrice Ares e del mensile Studi cattolici diretto da Cesare Cavalleri. Dal 1984 al 1988 lavora nella redazione di Avvenire, dove diventa caposervizio. Dal 1988 al 1995 è alla Rai di Milano, prima come cronista, poi come caposervizio, conduttore del giornale radio e del telegiornale regionale, redattore esperto di religione (specialmente seguendo l’attività del cardinale Carlo Maria Martini) e vice-caporedattore dell’edizione milanese del Tg3 nazionale. Dal 1995 è a Roma, al Tg3 nazionale (prima come cronista, poi dal 1996 come vaticanista) e dal 2007 al Tg1, come vaticanista. Ha seguito papa Giovanni Paolo II in circa quaranta viaggi internazionali e ne ha raccontato l’agonia (aprile 2005) in lunghe edizioni speciali. Ha seguito l’intero pontificato di Benedetto XVI e i primi anni di quello di Francesco. Dal gennaio 2020 è in pensione. Cura il blog Duc in altum.
Ha scritto libri che si occupano di religione, famiglia, mass media. Tra le sue pubblicazioni: Il mio Karol (Paoline), Storia di un uomo. Ritratto di Carlo Maria Martini (Àncora), Piccolo mondo vaticano. La vita quotidiana nella città del Papa (Laterza), 266. Jorge Mario Bergoglio. Franciscus P.P. (Liberilibri), Come la Chiesa finì (Liberilibri), Il caso Viganò (Fede & Cultura), L’ultima battaglia (Fede & Cultura).
Dott. Valli, innanzitutto La ringrazio per questa intervista. Vorrei cominciare il nostro incontro partendo dalle sue pubblicazioni. A quale dei numerosissimi libri scritti è particolarmente legato e perché?
I libri sono un po’ come i figli: tutti unici e speciali. Quelli nei quali mi rispecchio di più sono gli ultimi: 266, Come la Chiesa finì, Il caso Viganò, Uno sguardo nella notte, Claustrofobia, Sradicati, Non abbandonarci alla tentazione? e Le due Chiese, oltre al romanzo L’ultima battaglia. Nella mia vita religiosa e intellettuale c’è uno spartiacque: risale al 2016, dopo Amoris laetitia, e non a caso i libri che ho appena citato sono stati scritti dopo quella data. Sono libri nei quali, in un modo o nell’altro, esprimo le mie perplessità circa l’indirizzo preso dalla Chiesa cattolica sotto il pontificato di Francesco. Molti dicono che del papa o si parla bene o non si parla affatto. Non so. Io certamente non provo grande soddisfazione a sottolineare tutto ciò che non va in questa Chiesa, tutto ciò che mi fa soffrire e che trovo aberrante, ma, in quanto battezzato, avverto anche con forza l’esigenza di testimoniare la Verità e difendere la vera fede. So di essere un povero peccatore e di avere tanti limiti, ma cerco di fare la mia parte. Mi sto affacciando alla vecchiaia e vorrei poter dire al buon Dio, quando mi chiamerà davanti a lui, che ho fatto quanto era nelle mie possibilità per non lasciar trionfare il Nemico.
Lei ha seguito molto il papa san Giovanni Paolo II. Di certo avrà avuto modo di cogliere aspetti, parole, gesti particolari di Karol Wojtyła. Ci può dire qualcosa si questa figura tanto importante per la storia della Chiesa e non solo?
San Giovanni Paolo II è stato decisivo per me fin da quando fu eletto. Nel 1978 avevo vent’anni e stavo incominciando la mia vita come professionista dell’informazione e come giovane uomo. Il suo invito a non avere paura e ad andare controcorrente rispetto alla mentalità del mondo mi ha segnato profondamente. La fedeltà nell’unione matrimoniale, l’apertura alla vita, la coerenza cristiana, il dialogo tra fede e ragione, il rifiuto del pensiero debole, il gusto per la ricerca della verità: ecco, in sintesi, alcuni degli aspetti del magistero di Giovanni Paolo II che hanno dato un’impronta indelebile alla mia vita. La Provvidenza poi ha voluto che dal 1996 io abbia incominciato a occuparmi di quel grande papa anche come giornalista, un dono grandissimo e un onore per il quale non smetto mai di ringraziare. Credo che per tanti di noi, mi riferisco a quelli della mia generazione, Karol Wojtyła sia stato un maestro molto esigente, a volte anche duro, ma importantissimo proprio perché ci ha impedito di finire in pasto alle mode culturali, allo spirito del tempo, alla droga, al terrorismo. Sarebbe stato facilissimo sbandare e andare fuori strada, ma lui ci prese per mano e ci condusse sulla via giusta, quella del Vangelo. Indicò una rotta e lo fece con credibilità. Il mio amico Joaquin Navarro-Valls, che fu per tanti anni il portavoce di Giovanni Paolo II, nel suo italiano spagnoleggiante diceva sempre: “Questo papa riesce a fare bella la virtù”. È proprio così. Riuscì a mostrarci la bellezza delle virtù cristiane e con la sua proposta ci conquistò.
Del magistero di Giovanni Paolo II considero di particolare importanza l’enciclica Fides et ratio. Per un filosofo è, a mio giudizio, un documento fondamentale che insegna a coniugare il gusto della ricerca con la sapienza che viene dalla verità di fede. A tal proposito, vorrei chiederLe: come un giornalista vive la fede nel proprio ambiente di lavoro? Quali difficoltà ha incontrato o incontra?
Come ho detto, da alcuni mesi sono in pensione, ma posso dire che nei lunghi anni trascorsi in numerose redazioni giornalistiche non ho avuto alcuna difficoltà. Ho sempre manifestato la mia fede in modo aperto, certamente senza diventare aggressivo o invadente, ma senza nessuna autocensura. In cambio ho sempre ricevuto rispetto e considerazione, anche da parte di chi non aveva la mia stessa visione della vita. Credo che siano molto importanti i comportamenti di tutti i giorni e le relazioni che si instaurano con chi lavora accanto a noi. Quello del giornalismo è un mondo non facile, attraversato da forti tensioni. C’è anche molta concorrenza e in televisione, in particolare, tutto è moltiplicato per mille. Ciò non significa però che sia obbligatorio diventare squali. C’è sempre spazio per la gentilezza, l’altruismo, la correttezza, per un sorriso. Quanto alle idee, nel momento in cui ho capito che le mie non erano più in sintonia con la linea editoriale della testata della quale facevo parte (è successo nel corso del 2016, al Tg1), mi sono fatto da parte. Non c’erano alternative. Ho pagato un prezzo salato, sotto tanti punti di vista, ma la verità viene prima di tutto: prima della carriera, prima delle soddisfazioni professionali, prima della popolarità. Quando è stato il momento di fare un passo indietro ho rivisto quasi quarant’anni di professione e mi sono detto: “Ok Aldo, vai tranquillo, è la scelta giusta”. La preghiera mi ha aiutato moltissimo. Ora sono completamente sereno e non ho rimpianti. Il blog mi tiene occupato e quindi continuo a lavorare, anche se in una forma assai diversa rispetto a quando ero il vaticanista del principale telegiornale italiano.
In uno dei suoi ultimi libri afferma che «papa Ratzinger continua a essere, oggi più che mai, uno sguardo nella notte». Perché?
La nostra notte è la notte della ragione e della fede. Viviamo in un mondo capovolto, nel quale vogliono convincerci che il male è bene, che il brutto è bello e anzi che non ci sono e non devono esserci più distinzioni, neppure tra maschile e femminile, perché tutto è liquido e tutto è apparenza, perché il mondo della sostanza è tramontato per sempre e tutto ciò che conta è la massimizzazione del piacere attraverso l’autodeterminazione. Joseph Ratzinger è forse l’ultimo grande rappresentante di una cultura di matrice cristiana e tomista che riconosceva l’oggettività del bene e del male, invitava a scegliere, mettendo la ragione al servizio delle virtù, e raccomandava la ricerca della verità oggettiva come l’unica ricerca che ci rende veramente umani. Innumerevoli sono state le sue lezioni in proposito. Ricordo, in particolare, la conferenza L’Europa nella crisi delle culture (tenuta a Subiaco il 1° aprile 2005, pochi giorni prima di essere eletto papa); ricordo l’omelia nella Missa pro eligendo romano pontifice del 18 aprile 2005 nella basilica di San Pietro, alla vigilia del conclave dal quale sarebbe uscito pontefice; ricordo il discorso Fede, ragione e università tenuto il 12 settembre 2006 a Ratisbona (e poi vilmente strumentalizzato dai nemici del papa e della Chiesa per scatenare un conflitto con il mondo musulmano); ricordo anche il discorso tenuto al Collège des Bernardins di Parigi nel 2008 nell’incontro con il mondo della cultura. Sono testi che andrebbero riletti e meditati, assieme a tanti altri. Ma temo che, giorno dopo giorno, stiamo perdendo la capacità di cogliere e apprezzare un tale insegnamento.
Il mio blog si occupa principalmente di filosofia. Ha un filosofo a cui è particolarmente legato? Se sì, può dirci perché?
Io ho studiato Scienze politiche, non Filosofia. Ritengo però che la battaglia per la verità sia da giocare principalmente sul terreno filosofico, e a questo proposito sono molto grato a pensatori come Josef Pieper, Cornelio Fabro, Augusto Del Noce, Robert Spaemann e Antonio Livi, senza dimenticare lo stesso Karol Wojtyła. Un legame intellettuale forte è stato con monsignor Livi, da poco scomparso, strenuo difensore dell’apologetica cattolica, della metafisica tomista e della razionalità cristiana, contro il relativismo che ormai dilaga anche all’interno della Chiesa. So bene che Livi non fu tenero verso Joseph Ratzinger. Sul punto si può discutere, ma di certo il suo contributo è stato molto importante, un solido punto di riferimento cattolico in un’epoca di sbandamento e di follia.
Intervista a cura di Giovanni Covino