Se il Covid-19 si chiama così c’è un motivo non tanto scientifico, quanto culturale. L’Organizzazione mondiale della sanità ha scelto Covid-19 (Co come corona; Vi come virus; D come disease, malattia, e 19 perché il 2019 è stato l’anno di identificazione del virus) nel rispetto delle linee guida fissate per evitare di dare alle malattie nomi che possano determinare conseguenze negative nei confronti di particolari paesi, regioni, comunità e persone.
Quindi niente più nomi come, per esempio, Mers (Sindrome respiratoria del Medio Oriente); Ebola (fiume della Repubblica Democratica del Congo); malattia di Lyme (una città del Connecticut); malattia di Creutzfeldt-Jakob (lo studioso che per primo la descrisse). Il politicamente corretto impone l’uso di acronimi.
Capiamo le esigenze. Però c’è anche un rischio: depotenziare le parole, sterilizzandole sempre più, porta a depotenziare il pensiero. A un pensiero debole occorre una lingua debole.
George Orwell parlava di neolingua, Italo Calvino di antilingua. Non per essere complottisti, ma dietro un acronimo si nasconde spesso il poco nobile tentativo di evitarci la fatica di pensare.
A.M.V.