Oggi, 22 maggio, è una data triste per tutti gli amici della vita. Una data luttuosa. Era il 22 maggio del 1978 quando in Italia veniva approvata la legge numero 194, Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, al cui articolo 1 leggiamo: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite».
Se ci fosse un premio Nobel dell’ipocrisia, andrebbe a questo articolo della legge 194.
In quarantadue anni di applicazione della legge in Italia sono stati uccisi “legalmente” più di sei milioni di esseri umani. Davvero un bel modo di garantire «il diritto alla procreazione cosciente e responsabile», di riconoscere «il valore sociale della maternità» e soprattutto di tutelare «la vita umana dal suo inizio».
La strage di oltre sei milioni di persone è avvenuta perché l’aborto è diventato un diritto. Il più aberrante dei diritti, dal momento che presuppone il sacrificio del più innocente fra gli innocenti, colui che non ha alcun modo di far sentire la propria voce e di far valere il proprio diritto alla vita.
La legge consente di ricorrere all’aborto entro i primi novanta giorni di gestazione per motivi di salute, economici, sociali o familiari. Oltre questo termine, l’aborto volontario è ammesso quando la gravidanza o il parto comportano un grave pericolo per la vita della donna, o sono accertate malformazioni del nascituro che possano determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre.
Il bambino, insomma, non ha alcun diritto.
Ma perché i novanta giorni?
Se prendiamo in considerazione lo sviluppo fisiologico del feto, possiamo verificare che il limite previsto è del tutto privo di significato. È assurdo, ingiustificato e palesemente pretestuoso. Non al terzo mese, ma già alla terza settimana siamo in presenza di un embrione perfettamente riconoscibile, e questo embrione è un essere umano, e lo è dal momento del concepimento. Al termine del secondo mese il feto possiede tutto ciò che si trova nell’essere umano sviluppato. Il cuore batte, i muscoli sono in funzione. Al terzo mese il bambino ha fattezze umane ben precise. I primi nuclei di tessuto osseo si vanno formando rapidamente. Le gambe si distendono, piedi e mani sono formati. Il volto è delineato: il naso è un po’ schiacciato, il mento piuttosto marcato, l’orecchio un capolavoro di anatomia in miniatura. Gli occhi sono chiusi, ma oltre un sottile strato di epidermide traspare il pigmento della retina. Braccia e gambe sono in continuo movimento. La testa si volta ripetutamente. Le labbra si aprono e si chiudono. L’espressione del volto ci mostra un essere umano, molto piccolo ma completo, che si sta allenando in vista della vita esterna. Un essere umano che la legge consente di uccidere.
All’indomani del referendum del maggio 1981, che vide la sconfitta della proposta di abrogazione avanzata dal Movimento per la vita, i titoli dei giornali, con rarissime eccezioni, inneggiarono alla ragione, al progresso, alla modernità. Ma quale progresso può essere mai quello che si misura con milioni di vite soppresse?
«Ogni uomo ha il diritto al dono della vita» disse Giovanni Paolo II nell’Angelus del 5 aprile 1981. Riascoltiamo quel monito: «Se si concede diritto di cittadinanza all’uccisione dell’uomo quando è ancora nel seno della madre, allora ci si immette per ciò stesso sulla china di incalcolabili conseguenze di natura morale. Se è lecito togliere la vita a un essere umano quando esso è più debole, totalmente dipendente dalla madre, dai genitori, dall’ambito delle coscienze umane, allora si ammazza non soltanto un uomo innocente, ma anche le stesse coscienze. E non si sa quanto largamente e quanto velocemente si propaghi il raggio di quella distruzione delle coscienze, sulle quali si basa, prima di tutto, il senso più umano della cultura e del progresso dell’uomo. Coloro che pensano e affermano che questo è un problema privato e che bisogna difendere, in tal caso, il diritto strettamente personale alla decisione, non pensano e non dicono tutta la verità. Il problema della responsabilità per la vita concepita nel seno di ogni madre è problema eminentemente sociale. E contemporaneamente è problema di ciascuno e di tutti. Esso si trova alla base della cultura morale di ogni società. E da esso dipende l’avvenire degli uomini e delle società. Se accettassimo il diritto di togliere il dono della vita all’uomo non ancora nato, riusciremmo poi a difendere il diritto dell’uomo alla vita in ogni altra situazione? Riusciremmo a fermare il processo di distruzione delle coscienze umane?».
No, non abbiamo fermato il processo di distruzione delle coscienze.
A.M.V.