Cari amici di Duc in altum, dal professor Gian Pietro Caliari una riflessione su ciò che la pandemia ci sta lasciando in eredità sul piano antropologico e filosofico: la vita umana ridotta dallo scientismo biomedico imperante a una sola dimensione. Con la Politica e la Chiesa alleate nell’opera di appiattimento.
A.M.V.
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Che cosa è l’uomo e la sua vita perché ne valga la pena?
In questa pandemia che è stata facilmente trasformata ad arte, per oscuri disegni geopolitici e geoeconomici, in un pandemonio, una fondamentale domanda è mancata tanto alla politica quanto alla più alta visione della riflessione intellettuale, spirituale e, finanche, teologica.
Che cos’è la vita? E, soprattutto, che cos’è la vita dell’uomo?
Ci si è limitati, e proprio questo solleva il fumus doli sull’intera vicenda, a propagandare un mito vitalistico di matrice nietzschiana e, per quanto riguarda specificamente la Chiesa, a promuovere un virale neo-umanesimo già teorizzato, nel secolo scorso, dal gesuita Marie-Joseph Pierre Teilhard de Chardin.
Che cosa è l’uomo e la sua vita? Si tratta, a ben vedere, di una semplice domanda che già troviamo nei Tehillìm, il libro dei salmi, composti nel III secolo a.C.
Il Salmo 8, infatti, esordisce con questa semplice ma essenziale domanda rivolta dal credente a Dio: “Che cos’è l’uomo perché Tu, o Signore, te ne ricordi e lo visiti?”.
Nel pensiero occidentale, che appunto il neo-umanesimo alla Teilhard de Chardin o alla Edgar Morin vorrebbero sic et simpliciter abolire, il concetto di vita umana si è articolato in tre distinti ma essenzialmente complementari aspetti.
La ζωή (zoé), quale essenza che contraddistingue indistintamente e universalmente tutti gli esseri umani. Il βίος (bíos) che indica le concrete modalità con cui l’uomo vive individualmente e socialmente.
Usando le categorie della filosofia di san Tommaso, sotto questo aspetto, nell’uomo c’è un principio qua vivimus, secondo il quale viviamo, e uno quam vivimus che, dunque, viviamo in infinite modalità: individuali, sociali, politiche, economiche, intellettuali e materiali.
Rispetto alle prime categorie platonico-aristoteliche la rivelazione cristiana aggiunge una terza dimensione alla definizione del vivere umano, quella della ψυχή (psyché) nel senso di un’anima o soffio vitale, che diventa il criterio di giudizio per quam vivimus e, dunque per valutare se ζωή (zoé) e βίος (bíos) siano realmente vita o morte.
“Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Giovanni 12, 25), afferma Gesù nel contesto di un breve discorso rivolto a dei greci, subito dopo il suo ingresso a Gerusalemme.
Ebbene, nell’originale greco di Giovanni il lemma usato per indicare la vita è proprio quello di ψυχή (psyché).
Per san Tommaso d’Aquino, proprio quest’ultima dimensione della vita umana è “la forma sostanziale del corpo” (Summa theologiae, I, 76, 1).
Che cosa è dunque l’uomo e la sua vita? Per l’Aquinate “corpo, corpo animato e anima razionale” (De anima, 1, 9), ma in tutt’uno di un’antropologia soprannaturale fondata sulla nozione di anima forma sostanziale del corpo, perciò sull’unione armonica di tutte e tre le dimensioni che rendono l’uomo sostanzialmente tale e, dunque, essenzialmente vitale.
Nello scientismo biomedico imperante e propagandato dal virologismo mediatico, invece, la sola dimensione della ζωή (zoé) è stata considerata l’unico, certo e inappellabile criterio che distingue vita e morte.
Non stupisce che nell’alto e inappellabile giudizio d’essa le altre dimensioni del vivere siano state ritenute non solo superflue ma non necessarie, e dunque soppresse d’imperio dallo Stato e dalla Chiesa per quanto attiene non solo a ciò che viviamo ma anche al perché viviamo.
Abbiamo, innanzi tutto, assistito e assistiamo a un inquietante scenario in cui si è materializzata quella che il filosofo viennese Ivan Illich già sul finire degli anni Settanta definiva un’epocale pandemia di iatrogenesi clinica, sociale e intellettuale (cfr. Nemesi Medica, L’espropriazione della salute, Milano, 1977; e Limits to medicine, Londra, 1988) .
Illich definisce la iatrogenesi clinica il danno che i medici infliggono nell’intento di guarire o di sfruttare il paziente.
La iatrogenesi sociale è quella di secondo livello, “i cui sintomi sono la supermedicalizzazione sociale” e che costituiscono quella che Illich chiama “espropriazione della salute”, vale a dire che questa non è più di pertinenza del singolo ma è collettivizzata.
È denominata, infine, iatrogenesi culturale quella di terzo livello, nel quale le professioni sanitarie “hanno, sulla salute, un ancor più profondo effetto negativo d’ordine culturale in quanto distruggono la capacità potenziale dell’individuo di far fronte in modo personale e autonomo alla propria umana debolezza, vulnerabilità e unicità. Il paziente in preda alla medicina contemporanea non è che un esempio dell’umanità in preda alle sue tecniche perniciose”.
Sulla spinta mediatica di virologi del mainstream e di comitati tecnico-scientifici, le cui certezze e previsioni mutavano a misura dell’aggravarsi non della pandemia ma della iatrogenesi, anche la politica ha subito una poligenesi.
La poligenesi si è così pienamente palesata non solo, come prevedeva Michel Foucault, in biopolitica, ma si è auto-leggimitata e auto-sovranizzata, in questi mesi, come biopotere: come gestione, utilizzazione e controllo del corpo umano nella società dell’economia e della finanza capitalista (cfr. Nascita della biopolitica, Milano, 2005).
La politica, poi, si è anche concretata in psicopolitica e psicopotere che plasma le menti, seduce e costringe, fino a non incontrare più resistenza alcuna perché ogni individuo ha interiorizzato come propri i bisogni del sistema (cfr. Byung-chul Han, Psychopolitik. Neoliberalismus und die neuen Machttechniken, Frankfurt, 2014).
Al grido ipnotizzante “state a casa!”, “mantenete le distanze!”, “non portate … anzi portate le mascherine!”, con l’immancabile carrellata giornaliera di morti e positivi, lo psicopotere doveva essere lasciato libero d’esercitare il suo biopotere sui corpi, sulle menti, sulle coscienze, su tutto e per l’ineffabile e messianica missione di “salvare vite umane”!
In questo delirio d’onnipotenza della “scienza” e della “politica”, nel ciclopico sforzo di preservare ciò che ci fa vivere (qua vivimus), poco importa che si dannasse tutto ciò che viviamo (quam vivimus) e, ancor più tragicamente, ciò per cui viviamo (per quam vivimus).
Nell’oscuro tramonto di chiari e solidi riferimenti logici e teologici, non stupisce allora di assistere a un’avvilente ecclesiogenesi in cui anche l’ultimo baluardo di difesa di ciò per cui viviamo, la salvezza delle anime, è cestinato come un inutile residuo medico-chirurgico.
“Che cos’è l’uomo perché Tu, o Signore, te ne ricordi e lo visiti?”.
Una ben minima creatura se paragonata all’immensità dell’universo! Una ben “fragile canna” come direbbe Blaise Pascal (Pensées, n. 264), se confrontato alle pandemie e ai pandemoni del Tempo e della Storia!
Eppure, come insegna il Concilio Vaticano II, “l’uomo, in verità, non sbaglia a riconoscersi superiore alle cose corporali e a considerarsi più che soltanto una particella della natura o un elemento anonimo della città umana. Infatti, nella sua interiorità, egli trascende l’universo delle cose: in quelle profondità egli torna, quando fa ritorno a sé stesso, là dove lo aspetta quel Dio che scruta i cuori là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino. Perciò, riconoscendo di avere un’anima spirituale e immortale, non si lascia illudere da una creazione immaginaria che si spiegherebbe solamente mediante le condizioni fisiche e sociali, ma invece va a toccare in profondo la verità stessa delle cose” (Gaudium et spes, 14). Se un giorno sarà mai possibile lasciarci alle spalle la pandemia e, soprattutto, il pandemonio che ha travolto e sconvolto ogni aspetto che della vita viviamo ma anche la stessa ragione per cui noi viviamo; la Politica, per quanto le compete, e la Chiesa, per quanto costruttivamente e divinamente le attiene: la prima per ogni qualsivoglia proponimento e progetto di rinascita sociale ed economica; e la seconda per qualsivoglia intenzione e necessità di riscoprirsi Luce delle Genti; entrambe dovranno ripartire dall’antico interrogativo del salmista.
Entrambe, insomma, dovranno ritornare a riscoprire “la forma sostanziale del corpo”, per dirla con l’Aquinate.
La prima, la Politica, non dispone – ahinoi! – di autonome risposte, e dunque procederà come scienza di governo e come ogni scienza, inclusa la tanto declamata virologia, per trials and errors (per tentativi ed errori).
La seconda, la Chiesa, invece dovrebbe già conoscere la risposta – almeno riteniamo – da offrire e dunque, infine, avere il coraggio di offrirla nuovamente a tutti gli uomini, credenti e non credenti, ma almeno di buona volontà: “Non uscire fuori, rientra in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità. E se scoprirai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso. Tendi là dove si accende la stessa luce della ragione” (Sant’Agostino, De vera religione 39, 72).
Gian Pietro Caliari