Cari amici di Duc in altum, vi propongo il mio contributo per la rubrica La trave e la pagliuzza in Radio Roma Libera.
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Durante i giorni della quarantena, su consiglio di un amico, ho letto un vecchio romanzo di fantascienza, L’araldo dello sterminio (titolo originale The Herald), la cui trama induce a riflettere.
Pubblicato nella mitica collana Urania della Mondadori, il racconto, di Michael Shaara, uscì in Italia nel 1983 ed è la storia del dilemma morale in cui viene a trovarsi un uomo che è fra i pochissimi sopravvissuti a radiazioni micidiali, deliberatamente emesse da un gruppo di scienziati allo scopo di sterminare l’umanità e dare così inizio a una nuova civiltà, formata soltanto dalle persone immuni perché geneticamente ritenute migliori.
Il piano degli scienziati è fare una sorta di reboot (di riavvio) dell’umanità, eliminando per selezione genetica tutti gli individui troppo gretti, stupidi e mossi da sentimenti di aggressività e di odio verso il prossimo. Un piano salvifico, per togliere di mezzo gli elementi peggiori.
Il protagonista, essendo risultato immune alle radiazioni (come pochissimi altri), è incaricato dal governo di andare nella città che è stata colpita dalle emissioni mortali per scoprirne la fonte e distruggerla, ma a un certo punto, durante la missione, si rende conto che la tragedia, tutto sommato, ha conseguenze non proprio negative. I sopravvissuti sono il due per mille, e vivere in pochi là dove prima si era in tanti non è niente male. Lo Stato, con tutto ciò che comporta sotto il profilo della limitazione delle libertà, non esiste più e i conflitti interpersonali si riducono. In una parola, un mondo ideale.
Dunque, che fare? Bloccare la fonte delle radiazioni e mettere fine al genocidio oppure far propagare le radiazioni mortali su tutta la terra, così da dare inizio effettivamente a una nuova civiltà, sia pure al prezzo della morte di miliardi di persone innocenti?
Non dico come va a finire il racconto. Osservo però che la realtà malthusiana, ecologista e ambientalista di un mondo in cui si resta in pochi, senza strutture sociali (burocrazia, tasse, polizia, esercito) e problemi relazionali (traffico, fatica di convivere a stretto contatto con gli altri) può risultare seducente.
Durante il fenomeno del Covid-19 alcune notizie e immagini, dobbiamo ammetterlo, hanno solleticato l’anima malthusiana che è in ciascuno di noi: l’acqua dei canali di Venezia tornata cristallina; le vette delle montagne visibili a distanza di chilometri grazie alla fine dello smog; i centri storici restituiti alla loro bellezza perché privi di folla vociante e maleducata; animali tornati a farsi vedere perché non più terrorizzati dalla presenza umana. Tuttavia, la sparizione dell’uomo non sembra, tutto sommato, una buona soluzione. Anzi, sembra il classico caso in cui il rimedio è peggiore del male.
Eppure, non tutti la pensano così.
Come qualcuno ricorderà, il 30 marzo scorso nella pagina delle notizie del Vaticano, VaticanNews.va, apparve un articolo in inglese (Coronavirus: Earth’s unlikely ally) nel quale l’autore, il gesuita Benedict Mayaki, commentava con soddisfazione il fatto che la quarantena causata dal coronavirus, con conseguente chiusura in casa di tante persone, avesse comportato “benefici imprevisti per il pianeta”, come appunto l’acqua limpida e il ritorno dei pesci nei canali di Venezia e la diminuzione delle emissioni di carbonio e dunque dell’inquinamento atmosferico. In tutto questo, commentava il buon padre gesuita, “c’è una lezione per il futuro” che ci insegna “quanto si possa fare per il pianeta”.
Ovviamente il buon padre gesuita citava l’enciclica Laudato si’ di Francesco e spiegava che in quell’importante documento si mette in guardia dagli effetti nocivi dell’attività umana sull’ecosistema.
Nell’articolo però non si faceva alcun riferimento alle sofferenze causate dal coronavirus, e così, quando i responsabili del sito se ne resero conto, il testo fu rimosso. Ma qualcuno, tra i quali il sottoscritto, aveva fatto in tempo a leggerlo.
Ora, che dire? Quando, in preda all’ideologia ecologista, si sostiene che la nuova divinità è la Madre Terra, non si può che approdare a questi esiti. Il buon padre gesuita fu forse un po’ troppo diretto e tranchant, ma non fece altro che portare alle estreme conseguenze un certo pensiero, secondo il quale per il pianeta il male è l’uomo. Dunque, se vogliamo salvare il pianeta, eliminiamo l’umanità, o almeno riduciamone fortemente la presenza. Una visione in linea con i novelli profeti del malthusianesimo (come Jeffrey Sachs) tanto spesso ospitati e riveriti, non a caso, anche in Vaticano.
L’ecologismo sotto questo profilo mostra la sua stretta parentela con il marxismo. Per l’ideologia ecologista, proprio come per il marxismo, l’uomo non è il fine, ma un mezzo. Un mezzo al servizio dell’ideologia.
L’ideologia, quando sceglie un valore supremo, ne fa un valore assoluto, rispetto al quale la stessa vita umana può essere sacrificata. E l’ecologismo radicale funziona proprio così. Se il bene della Madre Terra lo richiede, l’uomo sia sacrificato.
Nuovi “araldi dello sterminio”, profeti dell’ecologismo radicale, sono tra noi. E il fatto che la loro predicazione sia stata fatta propria anche dal pensiero cattolico, ai suoi massimi livelli di autorità, non può che inquietare.
Aldo Maria Valli