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La preziosa lezione dei contadini “ignoranti”

Cari amici di Duc in altum, vi propongo il testo del mio intervento per la rubrica La trave e la pagliuzza su Radio Roma Libera.

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Sono rimasto molto colpito da un video che un amico mi ha inviato nei giorni scorsi. Raccoglie le testimonianze di alcuni anziani contadini e allevatori, presumo dell’Italia centrale, i quali, interpellati sulla pandemia, sul coronavirus e sulle misure di contenimento del contagio, mostrano candidamente di non saperne nulla. Il video è bello perché le testimonianze sono cariche di disarmante sincerità, i volti esprimono dignitosa semplicità e nessuno degli interpellati cerca di essere ciò che non è.

Ho a mia volta inviato il video ad alcuni amici e uno di loro, che si occupa di agronomia, ha commentato: “Sono tenerissimi, e quanti ne conosco così! Persone poco istruite, lontane dai social e dal mondo mediatico. Voglio loro tanto bene perché sono la nostra storia: guai a chi me li tocca!”

Ed ecco il commento di un’amica: “Semplici da far tenerezza. Vivono nello stesso mondo nostro ma non ne sono travolti. Meritano attenzione e rispetto”.

A nessuno dei miei amici è venuto in mente di definire le persone apparse nel video come ignoranti. E nemmeno io le definirei mai in tal modo. In realtà ignoranti lo sono, in senso letterale, perché ignorano tante cose, ma non che noi, metropolitani alfabetizzati, sappiamo molto di più!

Se riflettiamo su ciò che realmente sappiamo a proposito del Covid-19 dobbiamo ammettere che anche noi siamo profondamente ignoranti. Nonostante la nostra frequentazione dei social e la lettura quotidiana di tante notizie e tanti commenti, siamo pieni di dubbi, e le cose che non sappiamo superano di gran lunga quelle di cui, più o meno, abbiamo potuto farci un’idea. Non sappiamo ancora bene come e dove sia nato il virus, non sappiamo come inizialmente si sia trasmesso, non sappiamo di che cosa effettivamente siano morte tante persone (per esempio, polmonite o trombosi), non sappiamo se siano morte di Covid o con Covid, non sappiamo se il virus se n’è andato davvero, non sappiamo se tornerà, non sappiamo se è il caso di cercare un vaccino oppure no, non sappiamo quali siano le terapie più efficaci eccetera eccetera.

Se sapessimo di non sapere saremmo cauti e umili, invece, imbottiti di notizie, noi presumiamo di sapere, e così diventiamo spesso aggressivi. Ma è l’aggressività del debole, che attacca per insicurezza.

I contadini interpellati nel video hanno bei volti abbronzati, di anziani abituati a stare all’aria aperta. Il fatto di vivere in campagna, in borghi isolati, li ha messi automaticamente al riparo dal contagio, ma non solo da quello causato dal virus: parlo anche del contagio dell’informazione. Dai loro sguardi si vede che non sono stati stressati dal terrore e dal sensazionalismo. Essendo rimasti alla larga da televisioni, giornali, social e da tutte le altre fonti dell’informazione, hanno mantenuto un regale distacco e una serenità che nessuno può scalfire.

Significa allora che non ci dobbiamo informare? Certamente no. Ma la lezione che arriva da quei nostri anziani connazionali non metropolitani è comunque istruttiva: di troppa informazione si può morire come di coronavirus. Si muore di indigestione informativa, di stress da notizia, di esaurimento nervoso da sovradosaggio di news.

Non è facile dire quale possa essere la modica quantità di notizie utile per mantenerci informati senza cadere in qualche forma di nevrosi. Ognuno può regolarsi come crede. Ma il problema non è solo quantitativo. Si tratta di puntare all’informazione di qualità, ovvero veramente libera: rara avis in terris!

Guardando il video con le testimonianze degli anziani contadini ho anche ripensato alle apparizioni del presidente del Consiglio durante la pandemia, quando, all’ora dei massimi ascolti televisivi, entrava nelle nostre case, nelle quali eravamo chiusi per quarantena, e incominciava a snocciolare cifre e ad annunciare provvedimenti presi sulla base delle formulazioni del Comitato tecnico-scientifico. Ecco un classico caso nel quale abbiamo avuto la presunzione di sapere, ma in realtà non sapevamo nulla. Non eravamo in grado di sapere in che modo nascessero i dati che ci venivano forniti; non avevamo alcuna possibilità di fare un confronto tra fonti diverse; non avevamo la possibilità di capire in che modo il Comitato fosse giunto a prendere certe decisioni; non sapevamo quale fosse la competenza reale delle persone chiamate a prendere le decisioni. Tutti noi, in mancanza di oggettive possibilità di giudizio, eravamo chiamati, né più né meno, a un atto di fede. Di qui la sensazione, del tutto illusoria, di sapere, mentre in realtà il nostro era un credere di sapere.

Abbiamo vissuto e viviamo, dobbiamo ammetterlo, nell’illusione. Illusione di sapere, illusione di essere liberi di farci un’idea, illusione di essere in grado di giudicare. E l’illusione sta continuando.

Viene naturale pensare alla caverna di cui parla Platone, con gli schiavi incatenati, ignari di vedere solo ombre perché, non essendo in grado di voltarsi verso la fonte della proiezione, identificano le ombre con la realtà effettuale.

Allora ben vengano le voci di coloro che, aiutandoci a dichiarare i nostri limiti, ci richiamano al realismo dell’umiltà.

Aldo Maria Valli   

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