La pandemia ha creato crisi geopolitiche ed economiche che si inseriscono in un contesto già difficile per le democrazie liberali occidentali. Il gigante asiatico si avvia a prendere il posto degli Stati Uniti nel sistema internazionale? Questa la domanda al centro di un ampio e interessante contributo, pubblicato da oasiscenter.eu, che prende in esame alcuni commenti apparsi sulla stampa internazionale.
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Che quella causata da Covid-19 non sia soltanto una crisi sanitaria è oramai opinione condivisa. E pur senza giocare la facile carta del pessimismo, si può comunque ritenere che la portata (geo)politica, sociale ed economica della crisi scaturita dalla pandemia sarà persino più vasta e di più lunga durata rispetto a quella della crisi sanitaria. Facile scriverlo oggi: siamo reduci da mesi di limitazione di alcune libertà fondamentali, abbiamo assistito al crollo dei prezzi del petrolio, con il WTI che ha persino esplorato terreni negativi (anche se qui il Coronavirus non è la causa principale) e letto stime di recessioni a doppia cifra come un meno 18% per l’Italia, meno 15% per la Spagna, meno 10% per la Francia e meno 8% per la Germania (dati Capital Economics, citati dal Washington Post). Senza dimenticare le previsioni sull’esplosione del debito pubblico, non solo italiano, e i dati devastanti sull’occupazione americana. Meno facile farlo nel periodo che coincideva con la cosiddetta “fase 1” italiana, quando cercavamo di comprendere il significato dei dati che la protezione civile comunicava in puntuali conferenze stampa quotidiane. Tuttavia, alcuni dei più acuti osservatori già suggerivano di guardare alla luna (le crisi in arrivo, i cambiamenti a tutti i livelli) e non al dito (la crisi sanitaria).
Uno di questi è stato lo storico israeliano Yuval Noah Harari, autore tra gli altri del bestseller Sapiens. A Brief History of Humankind, in un lungo articolo pubblicato dal Financial Times.
Harari ritiene che le decisioni prese in questi mesi determineranno le sembianze del mondo per molti anni a venire: pesa su di lui l’esempio dello stato di emergenza dichiarato da Israele durante la guerra del 1948 e tuttora in vigore. È dello stesso avviso Marjorie Buchser, che ha sottolineato come le novità introdotte in tempi emergenziali manchino di adeguati pesi e contrappesi, e tendano a restare in vigore anche quando la curva si appiattisce.
Proprio qui sta la natura delle emergenze: accelerano i processi storici, come ha affermato anche Richard Haass su Foreign Affairs, accorciando il tempo che normalmente sarebbe necessario per prendere decisioni importanti quali, per esempio, l’opportunità di tracciare gli spostamenti dei cittadini. Decisioni che andrebbero valutate con cura a maggior ragione oggi, in un periodo in cui la tecnologia, ricorda Harari, rende possibile un modello di sorveglianza completamente diverso dagli anni della Guerra Fredda, quando, basandosi sull’operato di persone fisiche era impossibile monitorare quasi tutta la popolazione come oggi si può immaginare di fare con telecamere e App.
La combinazione di avanzamento tecnologico ed emergenza sanitaria ci pone davanti a un bivio, sostiene Harari: intraprendere la via della sorveglianza totalitaria o al contrario scegliere l’empowerment dei cittadini. La sorveglianza sanitaria, tramite App, braccialetti (o perfino con chip sottopelle, avverte Harari proiettandosi in un futuro prossimo), potrà drasticamente ridurre la diffusione del virus. Con la stessa tecnologia sarà possibile anche sapere in tempo reale la frequenza del nostro battito cardiaco, prevenire infarti e salvare molte vite. Ma qual è l’effetto collaterale di una sorveglianza di massa di questo tipo, aggravato dalla procedura d’urgenza con cui è stata sdoganata? La stessa tecnologia, afferma Harari, potrà così monitorare cosa ci fa ridere, emozionare o arrabbiare, dando a governi e corporations la possibilità di venderci qualsiasi cosa, «sia esso un prodotto o un politico».
Se Cina e Israele (con Netanyahu che ha sorpassato l’opposizione della commissione parlamentare in virtù dell’emergenza) sono secondo Harari i “campioni” di questo modello, Corea del Sud, Taiwan e Singapore rappresentano l’estremo opposto. Paesi che hanno sì utilizzato la tecnologia per combattere la diffusione del virus, ma si sono anche affidati a un’estesa campagna di test e soprattutto alla cooperazione dei cittadini. «Una popolazione fortemente motivata e ben informata è generalmente molto più potente ed efficace di una sorvegliata e ignorante», chiosa Harari. Ci si aspetterebbe che – quasi naturalmente – le mature democrazie liberali occidentali abbiano scelto la via della fiducia nei propri cittadini. Non è stato così.
Non ha mancato di farlo notare Henry Kissinger (97 anni da poco compiuti) in un editoriale sul Wall Street Journal: dopo aver combattuto la battaglia sanitaria e preso misure per curare lo stato dell’economia, le democrazie sono chiamate a salvaguardare i principi dell’ordine liberale, ha affermato l’ex segretario di Stato americano. Nel farlo, devono continuare a garantire quei beni fondamentali che i singoli individui da soli non possono procurarsi: sicurezza, ordine, benessere economico e giustizia. Non solo: se non vogliamo che il contratto sociale su cui si reggono le nostre società si disintegri, le democrazie devono continuare a preoccuparsi della propria legittimità, e non soltanto del potere di imporre la propria volontà.
Il problema, tuttavia, è che quando la pandemia sarà passata, in molti Paesi si avrà l’impressione che le istituzioni abbiano fallito. E poco importa se il fallimento sia reale o meno, ammonisce Kissinger: questa sarà la percezione e questo è ciò che conta.
Una posizione simile è quella di Hans Kundnani (Chatham House Europe Programme) il quale sostiene che il Coronavirus ha scosso le fondamenta delle democrazie e messo in dubbio la loro capacità di proteggere i propri cittadini. Kundnani fa un passo in più e specifica che sono in particolare le democrazie liberali europee a essere messe in difficoltà dal Coronavirus e non quelle, più giovani, asiatiche, come Taiwan o la Corea del Sud. Kundnani ipotizza due cause di questa differenza: da un lato la maggiore competenza delle burocrazie asiatiche, dall’altro un “residuo autoritario” che le avrebbe aiutate nella prima fase di risposta al virus. Se così fosse, scrive Kundnani, «la pandemia sarebbe una sfida non alla democrazia in quanto tale, ma alla democrazia liberale in particolare».
Un secolo cinese?
Spostandoci sul piano internazionale, la domanda che emerge con forza in questi mesi è se la sfida portata dalla pandemia alla democrazia liberale si tramuterà anche nel sorpasso cinese agli Stati Uniti.
Se lo sono chiesti Michael Green ed Evan S. Medeiros in un articolo pubblicato su Foreign Affairs. Il primo problema però, avvertono i due autori, sono le previsioni elaborate nel bel mezzo di una crisi globale, che spesso portano a conclusioni frettolose ed errate. In effetti, aggiungiamo noi, alla notizia della chiusura dell’importante provincia dello Hubei sembrava naturale pensare a un periodo di difficoltà per Pechino. Senza intravedere che il lockdown sarebbe diventato un termine che avrebbe poco dopo caratterizzato le nostre vite.
Se Green e Medeiros suggeriscono prudenza, George Friedman nell’articolo Power and the Rise and Fall of Nation si spinge oltre, facendo notare come durante la Guerra Fredda non siano mancati i momenti in cui sembrava ragionevole ipotizzare che l’Unione Sovietica stesse per superare gli Stati Uniti. Sorpasso che – sappiamo oggi – non è mai avvenuto.
D’altro canto, però, il fatto che non siano stati esclusivamente i “soliti” Donald Trump o Mike Pompeo ad alzare il tiro delle accuse contro la Cina suggerisce che anche i leader europei hanno la percezione di trovarsi a un tornante della storia. Joseph Borrell, per dirne uno, in un’intervista a Le Journal du Dimanche rilasciata a inizio marzo, ha sottolineato che Pechino è sicuramente un partner economico dell’Unione europea, ma è anche «un rivale sistemico che cerca di promuovere un modello alternativo di governance».
Ma la capacità di risposta alla pandemia degli Stati Uniti è largamente sottostimata, affermano Green e Medeiros, e al di là delle valutazioni sul presidente di turno, la resilienza americana si basa su una combinazione di capabilities e legittimità politica che difficilmente possono essere messe in dubbio dalla pandemia.
Sul potenziale economico americano non ci sono grossi dubbi. La pandemia ha sì messo in luce le disfunzionalità dell’economia americana, ma se Atene piange, Sparta non ride: l’economia cinese, fortemente votata all’export, sarà colpita dalla recessione dei Paesi importatori, e i Paesi più colpiti dal coronavirus valgono circa il 40% dell’export di Pechino.
I dubbi tuttavia sorgono sul versante della legittimità. Se infatti da un lato appare maldestro il tentativo cinese di costituire il proprio soft power con l’invio di mascherine e materiale sanitario, dall’altro l’immagine americana nel mondo non brilla. E non tanto per il comportamento impulsivo di Trump, o per le scelte discutibili seguite anche alla morte di George Floyd, quanto per il fatto che buona parte dell’opinione pubblica mondiale ha reagito alle accuse di Pompeo (che affermava che il virus fosse uscito da un laboratorio di Wuhan) ricordando le bugie dell’amministrazione Bush figlio, con Colin Powell che, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, sventolò la famigerata boccetta contenente le armi chimiche irachene, viatico all’invasione del 2003. Il problema della credibilità americana è certo amplificato dalle affermazioni ondivaghe di Trump, ma ha radici più profonde e spinge gli alleati degli Stati Uniti, dall’Europa al Medio Oriente, a cercare vie alternative per garantirsi la sicurezza che fino a poco fa veniva completamente appaltata a Washington.
Sebbene sembri prematuro parlare dell’inizio di un “secolo cinese”, intellettuali di orientamenti opposti concordano sull’ineluttabilità di un ridimensionamento dell’“impero” americano. Su questo punto si è soffermato l’editoriale di un recente numero di Limes, intitolato Il mondo virato, dove è evidenziato come tanto Graham Allison quanto George Friedman convergano sulla necessità da parte americana di abbandonare parti del mondo. Se per Friedman l’espansione dell’apparato militare Usa, con le sue 150 basi sparse nel mondo, è più un problema che una risorsa, perché «il grande pericolo per un impero è la guerra permanente» che sfianca la fede dei cittadini nella Nazione (p. 24), per Allison il futuro si caratterizzerà per il ritorno alle sfere di influenza, dando la possibilità a Pechino di costruirsi la propria.
Il grande cambiamento non sarebbe dunque l’ascesa della Cina a nuova superpotenza, quanto la fine della globalizzazione come l’abbiamo intesa finora, garantita dall’estensione dell’ombrello americano su tutti gli oceani del mondo, e il ritorno a un mondo fatto di contesti regionali, pur connessi tra loro, all’interno del quale l’ordine sarebbe portato da potenze locali e non dal garante statunitense. Un processo che implicherebbe per gli Stati Uniti anche la necessità di «ridurre l’interdipendenza economica con la Cina, specie nei settori politicamente e strategicamente sensibili» (Jabob Shapiro nell’ultimo numero di Limes).
Un nuovo mondo post-coronavirus, dunque. Ma l’idea non è nemmeno troppo nuova dato che già anni fa ne parlava Barry Buzan: se gli Stati Uniti non saranno più la potenza egemone, ciò non significa che ci sia qualcun altro pronto a diventarlo. Nemmeno la Cina di Xi. Al contrario, ipotizzava Buzan, potremmo avviarci verso un mondo fatto da alcune grandi potenze, ma privo di superpotenze.
Claudio Fontana
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Fonte: oasiscenter.eu