Cari amici di Duc in altum, l’intervento di monsignor Carlo Maria Viganò dedicato al Concilio Vaticano II e alle sue conseguenze ha suscitato un ampio dibattito in tutto il mondo. Tra coloro che hanno sentito il bisogno di sollecitare ulteriori riflessioni c’è stato Philip F. Lawler, direttore di Catholic World News, analista e commentatore di questioni riguardanti la Chiesa cattolica. Phil ha così fatto pervenire a monsignor Viganò alcune domande, alle quali l’arcivescovo ha prontamente risposto.
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Carissimo dottor Lawler, ho ricevuto per il tramite del comune amico Edward Pentin la sua e-mail, nella quale pone alcune domande relative a quanto già da me espresso sul Concilio Vaticano II. Volentieri le rispondo, auspicando che queste riflessioni possano contribuire a risanare la Chiesa cattolica dai gravi mali che la affliggono.
Ph. Lawler – Innanzitutto, qual è la sua opinione sul Vaticano II? Che da allora le cose siano andate rapidamente in discesa è certamente vero; ma se l’intero Concilio è un problema, com’è potuto succedere? Come si concilia questa posizione con ciò in cui crediamo sull’inerranza del magistero? Com’è stato possibile che tutti i Padri conciliari siano stati tratti in inganno? Anche se solo alcune parti del Concilio (ad esempio Nostra aetate, Dignitatis humanae) sono problematiche, dobbiamo porci le stesse domande. Molti di noi affermano da anni che lo “spirito del Vaticano II” è in errore. Vostra Eccellenza sta ora dicendo che questo falso “spirito” liberale riflette esattamente il Concilio in sé?
C.M. Viganò – Che il Concilio rappresenti un problema, penso non occorra dimostrarlo: il semplice fatto che ci poniamo questa domanda sul Vaticano II, e non sul Tridentino o sul Vaticano I, mi pare confermi un dato evidente e riconosciuto da tutti. In realtà, anche coloro che difendono a spada tratta quel Concilio si trovano a farlo prescindendo da tutti gli altri Concili ecumenici, di cui neppure uno fu definito come concilio pastorale. E si noti: lo chiamano il Concilio per antonomasia, quasi fosse l’unico e il solo di tutta la storia della Chiesa, o quantomeno considerandolo un unicum sia per la formulazione della sua dottrina, sia per l’autorità del suo magistero. Un’assise che, a differenza di quelle che l’hanno preceduta, si definisce appunto pastorale e dichiara di non voler proporre alcuna nuova dottrina, ma che di fatto crea un discrimine tra prima e dopo, tra Concilio dogmatico e Concilio pastorale, tra canoni inequivocabili e vaniloqui, tra anathema sit e ammiccamenti col mondo.
In questo senso, credo che il problema dell’infallibilità del magistero – (l’inerranza da Lei menzionata riguarda propriamente la Sacra Scrittura) – non si ponga nemmeno, perché il legislatore, ossia il romano pontefice attorno al quale è convocato il Concilio, ha solennemente e chiaramente affermato di non voler usare dell’autorità dottrinale che pure, volendo, avrebbe potuto esercitare. Vorrei fare osservare che nulla è più pastorale di quanto è proposto come dogmatico, poiché l’esercizio del munus docendi nella sua forma più alta coincide con l’ordine che il Signore diede a Pietro di pascere le sue pecore e i suoi agnelli. Eppure, questa opposizione tra dogmatico e pastorale è stata fatta propria da chi, nel discorso di apertura del Concilio, ha voluto dare un’accezione severa al dogma e un significato più morbido, più conciliante, alla pastorale. Ritroviamo la stessa impostazione anche negli interventi di Bergoglio, laddove egli identifica nella pastoralità una versione soft del rigido insegnamento cattolico in materia di fede e di morale, in nome del discernimento. Duole riconoscere che il ricorso a un lessico equivoco, o a termini cattolici intesi però in senso improprio, è invalso nella Chiesa a partire dal Vaticano II, che del circiterismo – vale a dire l’equivocità, la voluta imprecisione del linguaggio – è il primo e più emblematico esempio. Questo avvenne perché l’aggiornamento, termine anch’esso equivoco e ideologicamente perseguito dal Concilio come un assoluto, aveva posto come priorità su tutte il dialogo con il mondo.
Vi è un altro equivoco che deve esser chiarito. Se da un lato Giovanni XXIII e Paolo VI dichiararono di non voler impegnare il Concilio nella definizione di nuove dottrine e vollero che esso si limitasse ad essere solamente pastorale, dall’altro è pur vero che esteriormente – mediaticamente, si direbbe oggi – l’enfasi data ai suoi atti fu enorme. Essa servì a veicolare l’idea di una presunta autorità dottrinale, di una implicita infallibilità magisteriale che pure erano state chiaramente escluse sin dall’inizio. Se questo avvenne, fu per consentire che le sue istanze più o meno eterodosse venissero percepite come autorevoli e quindi accolte dal clero e dai fedeli. Ma basterebbe questo per screditare gli autori di un simile inganno, che ancora oggi insorgono se si tocca Nostra aetate, mentre tacciono dinanzi a chi nega la divinità di Nostro Signore o la perpetua verginità di Maria Santissima. Ricordiamoci che il cattolico non adora un Concilio, né il Vaticano II né il Tridentino, ma la Santissima Trinità, unico vero Dio; non venera una dichiarazione conciliare o un’esortazione post-sinodale, ma la Verità che questi atti del magistero veicolano.
Lei mi chiede: “Com’è stato possibile che tutti i Padri conciliari siano stati tratti in inganno?” Le rispondo attingendo alla mia esperienza di quegli anni e alle parole dei confratelli con i quali mi sono confrontato. Nessuno poteva immaginare che in seno al corpo ecclesiale vi fossero forze ostili così potenti e organizzate, da riuscire a respingere gli schemi preparatori perfettamente ortodossi preparati da cardinali e prelati di sicura fedeltà alla Chiesa, sostituendoli con un coacervato di errori abilmente dissimulati dietro discorsi prolissi e volutamente equivoci. Nessuno poteva credere che, sotto le volte della basilica vaticana, si potessero convocare gli stati generali che avrebbero decretato l’abdicazione della Chiesa cattolica e l’instaurazione della Rivoluzione (come ho ricordato in un mio precedente scritto, il cardinale Suenens definì il Vaticano II il 1789 della Chiesa!). I Padri conciliari sono stati oggetto di un clamoroso inganno, di una frode abilmente perpetrata con il ricorso ai mezzi più subdoli: si sono trovati in minoranza nei gruppi linguistici, esclusi da riunioni convocate all’ultimo momento, spinti a dare il proprio placet facendo loro credere che così volesse il Santo Padre. E quel che i novatori non riuscivano ad ottenere nell’aula conciliare lo conseguivano nelle commissioni e nei consigli, grazie anche all’attivismo di teologi e periti accreditati ed acclamati da una possente macchina mediatica. Vi è una mole enorme di studi e documenti che testimoniano questa sistematica mens dolosa da un lato, e l’ingenuo ottimismo o la sprovvedutezza dei buoni dall’altro. L’attività del Coetus Internationalis Patrum poté poco o nulla, quando le violazioni del regolamento da parte dei progressisti venivano ratificate al Sacro Tavolo.
Chi ha sostenuto che lo “spirito del Concilio” rappresentasse una interpretazione eterodossa del Vaticano II ha compiuto un’operazione inutile e dannosa, anche se nel farlo è stato mosso da buona fede. È comprensibile, per un cardinale o un vescovo, voler difendere l’onore della Chiesa e cercare di non screditarla dinanzi ai fedeli e al mondo: così si è pensato che quello che i progressisti attribuivano al Concilio fosse in realtà un travisamento indebito, una forzatura arbitraria. Ma se all’epoca poteva essere arduo pensare che la libertà religiosa condannata da Pio XI nella Mortalium animos potesse esser affermata da Dignitatis humanae, o che il romano pontefice potesse veder usurpata la propria autorità da un fantomatico collegio episcopale, oggi comprendiamo che quello che nel Vaticano II era abilmente dissimulato, oggi è affermato ore rotundo nei documenti papali, proprio in nome dell’applicazione coerente del Concilio.
D’altra parte, quando si parla comunemente dello spirito di un evento, si intende esattamente ciò che di quell’evento costituisce appunto l’anima, l’essenza. Possiamo quindi affermare che lo spirito del Concilio è il Concilio stesso, che gli errori del post-concilio sono contenuti in nuce negli atti conciliari, così come si dice a giusto titolo che il Novus ordo è la Messa del Concilio, anche se al cospetto dei Padri si celebrava la Messa che i progressisti chiamano significativamente preconciliare. E ancora: se davvero il Vaticano II non rappresentasse un punto di rottura, per quale motivo si parla di Chiesa preconciliare e di chiesa postconciliare, quasi si trattasse di due entità diverse, definite nella loro essenza proprio dal Concilio? E se il Concilio fosse davvero in linea con l’ininterrotto magistero infallibile della Chiesa, perché è l’unico che pone gravi e serissimi problemi di interpretazione, dimostrando la propria ontologica eterogeneità rispetto agli altri Concili?
Ph. Lawler – Secondo lei qual è la soluzione? Monsignor Schneider suggerisce che un futuro pontefice dovrà ripudiare gli errori. Ella trova questa proposta inadeguata. Ma allora come si possono correggere gli errori, in modo da mantenere l’autorità del magistero di insegnamento?
C.M. Viganò – La soluzione, a mio parere, risiede anzitutto in un atto di umiltà che tutti noi, a iniziare dalla gerarchia e dal papa, dobbiamo compiere: riconoscere l’infiltrazione del nemico in seno alla Chiesa, l’occupazione sistematica dei posti chiave della curia romana, dei seminari e degli atenei, la congiura di un gruppo di ribelli – tra i quali, in prima linea, la deviata Compagnia di Gesù – che sono riusciti a dar parvenza di legittimità e di legalità ad un atto eversivo e rivoluzionario. Dobbiamo riconoscere anche l’inadeguatezza della risposta dei buoni, l’ingenuità di molti, la pavidità di altri, l’interesse di quanti grazie a quella congiura hanno tratto qualche vantaggio.
Dinanzi al triplice rinnegamento di Cristo nel cortile del sommo sacerdote, Pietro “flevit amare”, pianse amaramente. La tradizione ci narra che il Principe degli apostoli avesse due solchi sulle guance, a causa delle lacrime che versò copiose per tutto il resto dei suoi giorni, pentito di quel suo tradimento. Toccherà a un suo successore, al vicario di Cristo, nella pienezza della sua potestà apostolica, riprendere il filo della tradizione là dove esso è stato reciso. Questa non sarà una sconfitta, ma un atto di verità, di umiltà e di coraggio. L’autorità e l’infallibilità del successore del Principe degli apostoli ne usciranno intatte e riconfermate. Esse, infatti, non furono deliberatamente chiamate in causa nel Vaticano II, mentre lo saranno il giorno in cui un pontefice dovesse correggere gli errori che quell’assise permise giocando sull’equivoco di un’autorità ufficialmente negata, ma surrettiziamente lasciata intendere ai fedeli dall’intera gerarchia, a iniziare proprio dai papi del Concilio.
Voglio ricordare che per alcuni quanto qui sopra esposto può suonare eccessivo, perché metterebbe in discussione l’autorità della Chiesa e dei romani pontefici. Eppure, nessuno scrupolo ha impedito di violare la bolla Quo primum tempore di San Pio V, abolendo da un giorno all’altro l’intera liturgia romana, il venerando tesoro millenario di dottrina e spiritualità della Messa tradizionale, l’immenso patrimonio del canto gregoriano e della musica sacra, la bellezza dei riti e delle vesti sacre, sfigurando l’armonia architettonica, anche di insigne basiliche, rimuovendo balaustre, altari monumentali e tabernacoli: tutto si sacrificò sull’altare del coram populo del rinnovamento conciliare, con l’aggravante di averlo fatto solo perché quella liturgia era mirabilmente cattolica e inconciliabile con lo spirito del Vaticano II.
La Chiesa è un’istituzione divina, e tutto in essa deve partire da Dio e a lui tornare. Non è in gioco il prestigio di una classe dirigente, né l’immagine di un’azienda o di un partito: qui si tratta della gloria della maestà di Dio, del non vanificare la passione di Nostro Signore sulla croce, delle sofferenze e dei patimenti della sua santissima Madre, del sangue dei martiri, della testimonianza dei santi, della salvezza eterna delle anime. Se per orgoglio o per sciagurata ostinazione non sapremo riconoscere l’errore e l’inganno nel quale siamo caduti, avremo da renderne conto a Dio, che è tanto misericordioso con il suo popolo quando si pente, quanto implacabile nella giustizia quando segue Lucifero nel non serviam.
+ Carlo Maria Viganò
21 giugno 2020