Il peccato più grave? La mancanza di fede. Anche nella Chiesa
Cari amici di Duc in altum, vi propongo il mio più recente intervento per al rubrica La trave e la pagliuzza di Radio Roma Libera.
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Ritengo sia il caso di tornare sulla bella intervista che Giulio Meiattini, monaco dell’Abbazia Madonna della Scala a Noci (Bari) e docente alla Facoltà teologica pugliese e al Pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma, ha concesso al Die Tagespost e durante la quale il teologo ha detto fra l’altro: «Sembra, ormai, che l’annuncio del Vangelo si riduca a una terapia che serve a far star bene l’uomo nel suo mondo, invece che trasformare l’umano dall’interno sospingendolo verso il Deus semper maior, nel movimento della glorificazione».
Da tempo numerosi fedeli cattolici si sono accorti che la Chiesa ormai si occupa quasi esclusivamente del benessere psicofisico della persona, entro un orizzonte tutto terreno, e ha smesso di parlare della legge divina e dei Novissimi. Il tentativo è quello, non certo nuovo, di mettere l’uomo al posto di Dio e di delineare un dio a propria immagine e somiglianza.
Nell’intervista dom Meiattini parla dei monaci che san Benedetto definisce «sarabaiti» (i quali «chiamano santo tutto ciò che torna loro comodo e respingono come illecito quello che non gradiscono») e dei monaci «girovaghi», che vagano di luogo in luogo, «mai stabili», e finiscono vittime dei loro mutevoli desideri. Ebbene, spiega il teologo benedettino, «direi che qui vengono descritte non solo alcune deviazioni della vita monastica, ma delle tentazioni costanti dell’animo umano. Esse potrebbero essere comprese, in generale, come la tendenza a riportare tutto alla propria misura soggettiva e al bisogno del momento, giustificando e razionalizzando, se necessario, anche l’errore o la ricerca esclusiva del proprio tornaconto, pur di non mettere in discussione se stessi».
Secondo Meiattini, «anche una buona parte della teologia odierna soffre di questa tendenza a ridurre il mistero di Dio e di Gesù Cristo alla misura umana». Certo, la fede va sempre tradotta nel linguaggio del tempo, così da consentirle di diventare cultura, «tuttavia – rileva il monaco – mi sembra che questo necessario tentativo abbia preso spesso una cattiva piega. La cosiddetta “svolta antropologica”, che ha segnato profondamente gli ultimi cinquant’anni di riflessione teologica, all’origine è affetta proprio da questo limite di fondo: riportare Dio all’interno di ciò che è umanamente comprensibile. Concretamente questo si è tradotto in una prevalenza del criterio “pastorale”, che funziona sempre più spesso come letto di Procuste entro cui ricondurre l’eccedenza e la trascendenza del mistero divino. Si è così sbilanciato il rapporto fra antropologia e teologia. Sembra, ormai, che l’annuncio del Vangelo si riduca a una terapia che serve a far star bene l’uomo nel suo mondo, invece che trasformare l’umano dall’interno» innalzandolo verso Dio.
Significativo, dice Meiattini, è che dopo il Vaticano II sia il diavolo sia gli angeli siano scomparsi rapidamente dalla teologia e dalla predicazione. «Tutto ciò era sentito come un retaggio ingombrante del passato, davanti alle esigenze del dialogo con le scienze naturali e con il pensiero di ispirazione marxista, che metteva al centro la dimensione sociale. Il cielo impallidiva davanti ai vivaci colori della terra. Il cristianesimo si è sentito improvvisamente quasi in colpa per aver trascurato il mondo e i suoi bisogni, e tutta la dimensione dell’invisibile (non solo l’inferno, ma anche il paradiso) è apparsa anacronistica. Il male, da questione metafisica, è stato ridotto a problema sociologico o psicologico».
La scelta di «demitizzare» la fede è avvenuta, fra l’altro, proprio mentre dal mondo saliva una richiesta opposta. «La figura dell’angelo, infatti, è ritornata prepotentemente dopo poco tempo con le nuove religiosità e con la New Age (sotto il nome di “spiriti guida”). A ciò si è aggiunta una produzione letteraria, cinematografica e poi musicale, che ha riportato il diavolo e il satanico all’attenzione delle folle, con straordinario successo. La Chiesa, che era stata custode per secoli di questo aspetto della religiosità, è rimasta completamente tagliata fuori e le persone si sono trovate a fronteggiare da sole il fascino di una realtà ambigua e insidiosa, che il Nuovo Testamento indica con l’espressione “le potenze di questo mondo”. Il mondo cattolico si è risvegliato con ritardo».
A questo punto all’intervistatore, che chiede come parlare del diavolo senza mettere paura alle persone, Meiattini risponde: «Ma siamo proprio sicuri che eliminare il linguaggio della paura sia una scelta saggia, anche dal punto di vista antropologico? Provi a pensare al grande proliferare del genere horror, popolato da spiriti malefici di tutti i tipi. Perché milioni di persone guardano questi film spaventosi? Perché hanno bisogno di riti sostitutivi in cui sperimentare una paura “controllata” per pervenire al suo superamento, magari con un finale in qualche modo liberatorio. Al silenzio della Chiesa sulle forze diaboliche, e sulla paura che esse inevitabilmente ispirano, corrisponde il riaffiorare di queste realtà in altri ambiti. Se la Chiesa elimina le simboliche del male e della paura, di cui il diavolo è il rappresentante per eccellenza, dimostra di non conoscere l’uomo e dimentica che per aderire a Cristo c’è da sostenere una battaglia con le forze del male, non solo con i loro epifenomeni sociali e psicologici. Alla fine queste simboliche verranno ricercate altrove, ma in modo distorto, con gravi pericoli e con effetti spesso dannosi. Le riflessioni di un grande studioso come Walter Burckert sul posto dell’ansia nella vita umana e sul ruolo della religione nel controllo di quest’ansia, attraverso i miti e i riti che la intensificano proprio per controllarla meglio, dovrebbero insegnarci qualcosa».
Il discorso si sposta sui peccati e sulla loro percezione, profondamente cambiata rispetto al passato, e dom Meiattini spiega: «I peccati, come le virtù, sono in fondo sempre gli stessi. E poiché ciascuno di essi è la negazione della virtù corrispettiva, quando non si parla più di certi peccati, significa che si è smesso anche di apprezzare e amare certe virtù che ad essi si oppongono. Detto questo, la mia impressione è che il peccato principale, che oggi non viene più considerato davvero tale e che non viene più chiamato per nome, è l’incredulità, la mancanza di fede, che il Nuovo Testamento chiama apistia. Essa oggi si presenta nella forma dell’ateismo, dell’indifferenza religiosa o anche del sincretismo religioso. Quando al posto della fede cristiana si affermano altre divinità o credenze, o ancor di più il semplice vuoto religioso, è Gesù Cristo che viene estromesso, posto “fuori della città”, come dice la lettera agli Ebrei. E edificare la propria esistenza o la città degli uomini escludendo la Parola di Dio è il vero “peccato del mondo”, di cui parla il vangelo di Giovanni. Nel vangelo giovanneo il peccato vero continuamente richiamato è la resistenza a credere in Gesù come il Figlio di Dio».
«Ora io ritengo – afferma Meiattini – che la progressiva scomparsa della fede cristiana e la sua sostituzione con l’ateismo, l’indifferenza religiosa o vaghe forme di religiosità sincretistiche, sia ormai una componente strutturale nella nostra cultura occidentale, soprattutto europea, che si pensa e si edifica sistematicamente a prescindere da Gesù Cristo e resistendo profondamente al Vangelo. A me sembra che anche i cristiani si siano assuefatti a questo fenomeno dilagante, accettando in pratica di considerare Gesù Cristo una “opzione” fra le tante. La crisi dello slancio missionario della Chiesa è un segno preoccupante di questa relativizzazione di Gesù, che dimostra come il peccato contro la fede sia anche penetrato in profondità fra i cristiani, senza che se ne sia effettivamente consapevoli».
Anche il tentativo di legittimare l’omosessualità, afferma il monaco benedettino, fa parte di questo quadro. «La Chiesa, anche se in misura diversa, è sempre tentata di piegarsi allo Zeitgeist [lo Spirito del tempo, ndr]. Questa non è una novità. Questa tentazione è riconducibile alla mancanza di fede di cui già dicevo. È un segno di debolezza e di raffreddamento della fede». Nel capitolo primo della lettera ai Romani la legittimazione della pratica omosessuale viene considerata in stretta relazione col rifiuto di credere in Dio. «Poiché gli uomini non hanno riconosciuto Dio e non hanno creduto in lui, scrive san Paolo, Dio li ha abbandonati alle loro passioni, fino a cambiare i rapporti naturali in rapporti contro natura. La questione, dunque, non riguarda solo o immediatamente la morale o la morale sessuale: si tratta, alla radice, di una mancanza di vita teologale, di fede nell’unico Dio».
«Di fatto, il tentativo di legittimare l’omosessualità fa parte di un movimento molto più ampio, che tende a considerare l’essere umano svincolato da ogni “natura”, pura costruzione culturale, plasmabile in ogni direzione. Dal punto di vista cristiano, questo significa in sostanza sostituirsi a Dio, considerarsi artefici di sé stessi, creatori invece che creature. L’ideologia omosessualista è solo uno dei volti dell’incredulità o dell’ateismo idolatra. Se vogliamo una corretta antropologia, è dal primo comandamento che bisogna ricominciare: “Non avrai altro Dio al di fuori di me”. E a Dio si giunge attraverso Gesù. Dunque, il silenzio complice o pauroso dei vertici ecclesiastici sull’omossessualità è l’altro volto di una crisi della fede che è penetrata anche nel clero».
La questione più urgente, ma anche più dimenticata oggi, è “formare cristiani che comprendano che dare la vita per Cristo è la grazia più grande. E che a questo siamo chiamati tutti, ogni giorno e in modi diversi, perché è il nucleo della fede. Ecco cosa significa “formare la coscienza dei credenti”: renderli consapevoli che la chiamata alla santità richiede necessariamente una qualche forma di morte, che non si può essere sempre “capiti” dal mondo, ma anche rifiutati. Questo è lo skandalon contro cui ogni generazione di credenti urterà sempre. Purtroppo, il Vaticano II non ci ha aiutato in questo. Nei suoi documenti non ci ha dato una teologia del martirio. Le parole “martire” o “martirio” ricorrono pochissime volte e in modo del tutto marginale nei documenti conciliari. Così, mentre milioni di credenti in tutto il mondo erano perseguitati e soffrivano a causa della loro fede, o non potevano esprimerla liberamente, l’assise conciliare si è preoccupata soltanto del dialogo con il mondo liberal-democratico occidentale».
«Ritengo – prosegue Meiattini – che questa omissione sia stato un grave errore di valutazione e di prospettiva, un inganno ottico, che ha influito sulla storia successiva della Chiesa. Oggi ci accorgiamo che su molti temi non è più possibile “dialogare” col cosiddetto mondo laico. La parola di Gesù è chiara: “Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia”. Possiamo vedere oggi che l’approdo post-moderno produce, attraverso il metodo dolce della seduzione, lo stesso deserto spirituale e la stessa ostilità al Vangelo dell’ateismo di stato dei totalitarismi novecenteschi. Dimenticando lo skandalon della Croce, siamo caduti negli “scandali” di altro genere».
In certi periodi della storia, spiega il teologo, il «senso della fede» può anche oscurarsi in gran parte dei cristiani, compresi i vescovi. Il sensus fidelium non può dunque essere richiamato come una forma di democrazia della maggioranza. «Ritengo che oggi il senso della fede si sia offuscato gravemente in gran parte del popolo cristiano e anche in molti dei suoi pastori. Per questo diffido dei questionari distribuiti prima dei sinodi».
L’intervista a dom Giulio (così come il suo colloquio con Gianfranco Amato) è veramente tutta da leggere e da gustare: in questo momento di confusione e smarrimento è un’autentica perla, in grado di fare da bussola. Utile, a mio avviso, è anche metterla in collegamento con le recenti riflessioni di monsignor Carlo Maria Viganò circa il Concilio Vaticano II.
Aldo Maria Valli
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Nella foto, da Die Tagespost, dom Giulio Meiattini