Cari amici di Duc in altum, il contributo che qui vi propongo, del professor Enrico Maria Radaelli, è per palati forti. Il linguaggio dell’autore è volutamente provocatorio. Personalmente non lo condivido quando è usato nei confronti dei pontefici e, in particolare, di Benedetto XVI. Ma, a parte la forma, ritengo che i contenuti siano utili al dibattito innescato dalla presa di posizione di monsignor Carlo Maria Viganò sul Vaticano II.
A.M.V.
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È da sessant’anni che si continua a truffare la gente a furia di “progressisti” e “conservatori”, ora anche con questa bagarre per la santissima presa di posizione dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ma è ora di finirla con l’uso sleale e doloso di queste categorie tutte e solo politiche applicate alla Chiesa, società tutta e solo squisitamente religiosa!
È proprio ora di finirla, perché è solo un modo peccaminoso per nascondere il fatto che quel che si vuol far credere oro è letame e quel che si vuol far credere letame è oro. Una vera corbelleria.
Ma quando mai nel Terzo secolo si parlava di “progressisti” invece che di eretici ariani e di “conservatori” invece che di fedeli al Dogma?
E quando mai nel Sedicesimo secolo si parlava di “progressisti” invece che di eretici luteran-calvinisti e di “conservatori” invece che di fedeli alle leggi di Dio insegnate da santa Romana Chiesa?
Basta quindi una buona volta con queste miserabili astuzie che stravolgono la realtà facendo passare per buoni gli eretici e per perfidi trogloditi i fermi e santi fedeli a Dio: i cosiddetti “progressisti” non sono altri che coloro che riassumono nella loro perversa dottrina il coacervo delle peggiori eresie confluite nel Modernismo; i cosiddetti “conservatori” sono invece solo i cristiani fedeli al Dogma e alla vera e santa liturgia pre-montiniana a costo di inimicarsi il mondo, Papi compresi.
Anche nell’odierna vicenda in cui l’arcivescovo Carlo Maria Viganò prende una forte e severa posizione riguardo al Concilio Vaticano II, in realtà l’unica posizione da prendere, egli non è il “conservatore”, ma è il cristiano fedele al Dogma, e i Papi che indissero, condussero e difesero e tutt’ora difendono quell’assise perversa non sono i buoni e bravi “progressisti”, ma sono Papi del tutto infedeli al Dogma, nel loro caso precisamente Papi modernisti e neo-modernisti.
E quando il 29 giugno Sandro Magister nel suo blog Settimo Cielo ha preso di petto la disputa titolandola L’arcivescovo Viganò sull’orlo dello scisma. La lezione inascoltata di Benedetto XVI, nell’articolo ha utilizzato ancora le stolte categorie in oggetto quando è evidente che da un lato abbiamo una viva, potente e ben ragionata critica dell’arcivescovo, e dall’altro si hanno Papi, in specie Benedetto XVI, che reggono le loro posizioni su argomenti non connessi col Dogma, come si vedrà.
Sta il fatto che le categorie fasulle vanno rimpiazzate con le categorie vere, basta coi sotterfugi: agli eretici l’eresia, ai fedeli la fedeltà.
Le uniche categorie accettabili in una disputa dottrinale nella Chiesa cattolica di Roma sono quelle di “eretico” per chi non aderisce al Dogma e al Magistero pastorale che ad esso è strettamente connesso così come insegnato dal Magistero dogmatico, e di “cattolico” per chi vi aderisce.
Altre categorie non ve ne sono. E quelle usate sono solo bugiarderie.
Non solo: si smetta anche di parlare di “ermeneutica”, altro trabocchetto, quasi si penda tutti dalle labbra della Scuola di Francoforte come bravi scolaretti di Papa Ratzinger, che dell’ermeneutica e dello storicismo ha fatto le sue polari, e si riprenda in mano la metafisica, la sola scienza cattolica, la sola metodologia concreta, la sola filosofia razionale, così finalmente tornando a toccare con mano, dopo quasi sessant’anni di buia notte ermeneutica e storicista la vera realtà della Chiesa, prima che sia invece l’odierna terribile realtà della Chiesa a farci sbattere la faccia contro di essa, ma allora sarà ormai troppo tardi.
Nessuno dei venti Concili ecumenici della Chiesa ha mai avuto bisogno che i documenti, i comandi e gli anatemi prodotti dovessero affrontare il setaccio di un’interpretazione: nessuno, perché il Dogma non lo consente, troppo chiaro per essere “interpretato”, checché ne dica il cardinale Brandmüller.
E la si smetta poi una buona volta di parlare della tanto più farraginosa, implessa e contorta ermeneutica indicata da Papa Ratzinger nel più sciagurato che celebre suo Discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005: «Un’ermeneutica della riforma – chiosava in quelle sue considerazioni –, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa».
Qualcuno regali e inviti a leggere al più presto al sempre più in pericolo augustissimo Autore di tanto contorcimento concettuale I vestiti nuovi dell’Imperatore, una bella fiaba di Andersen che potrà suggerirgli il motivo per fermarsi dal produrre da decenni, con insistenza degna di miglior causa, uno dopo l’altro, solo morbidi guanciali di piume utili soltanto ad appoggiare sereni il proprio capo tanto bisognoso di pace, i gomiti stanchi, e così dormire quieti sonni tra i frastuoni del mondo, alla faccia degli strafulmini di Ez 13,18, santa Parola di Dio.
La “ermeneutica della riforma nella continuità” è, scandendo i termini uno per uno: primo, solo un’interpretazione (= ermeneutica); secondo, di una discontinuità (= riforma); terzo, nell’ortodossia (= continuità).
Dunque è un’opinione, è un’ipotesi di lavoro, è nulla più che un parere intorno a un qualche concetto che vorrebbe essere in continuità col sano sviluppo del Dogma e contemporaneamente però, riformandolo, vorrebbe essere anche il suo opposto, e tutto ciò, ossia essere quello e il contrario di quello, senza però darlo minimamente a vedere, senza scoprire il conflitto, la contraddizione, la più stridente guerra all’ultima essenza tra le due cose.
Ratzinger Ratzinger, quando la finirai di aggrovigliarti in gomitoli di bianche piume soavi solo per non vedere il sangue della Redenzione che ti scorre intorno, e così magari, alla fine, salvarti?
Si cita sempre quel fin troppo celebre Discorso alla Curia romana, e anche osannandolo, perché nella sua semplicità – ermeneutica della continuità sì, ermeneutica della rottura no –, parrebbe risolvere tutti i quanto mai annosi problemi nati e poi mai risolti del Vaticano II, ma non si va mai al fondo di quelle righe in cui il loro augustissimo Autore consente la realizzazione di un fatto gravissimo, tanto grave da tagliare alla radice tutta la potenza del celeberrimo schema che mette tutti nel sacco, continuità sì, rottura no, ermeneuticamente parlando, si capisce, cioè a dire sempre alla Rashomon, quel film di Kurosawa dove quattro ermeneuti interpretano lo stesso episodio arrivando a quattro conclusioni inconciliabili: l’interpretazione è la realtà.
Già, ma quale interpretazione? Perché mai quella del Papa dovrebbe essere più vera della mia, visto che non parla ex cathedra?
E questo è il punto. Ed è qui che gli eserciti si affrontano da ormai sessant’anni. Già: sempre camminando e combattendo su una coltre di foglie che nasconde alle soldataglie di cardinali, vescovi, monsignori e semplici fedeli, “progressisti” o “conservatori” che siano, la gran trappola che tutti li sprofonda nell’unica buca, acquiescenti essendo tutti al regime ereticale così ben insegnato, e dico “tutti” perché non c’è da parte di nessuno il rigetto pubblico richiesto e dovuto, tranne ora il suddetto arcivescovo Carlo Maria Viganò.
Ma, dopo che lo stesso Amerio aveva segnalato nel suo Iota unum, e da qui poi ripetutamente il sottoscritto nei propri libri, che gli stessi neoterici non si facevano scrupolo di spiattellare la cosa senza pudore, vedi padre Schillebeecks che scrive: «Nous l’exprimons d’une façon diplomatique, mais après le Concile nous tirerons les conclusions implicites» (padre Edward Schillebeecks op, De Bazuin, n. 16, 1965), perché mai, dicevo, tutti insistono ancora a non guardare in faccia la realtà, e a non farla finita con questo conciliare maxi-trappolone dell’ambiguità?
Esso è il truffaldino escamotage che chi scrive denuncia da decenni, raccomandato dal cardinale Suenens all’accorto e fine grande orecchio del cosiddetto “Papa buono” Giovanni XXIII, che lo mise subito in atto fin dalla formale apertura del Concilio al grado meramente “pastorale”, e non affatto “dogmatico”, come avrebbe invece dovuto essere per la presenza del Papa, l’11 ottobre 1962: e l’escamotage è di non utilizzare mai il grado dogmatico di Magistero, ma sempre e solo il grado “pastorale”, così da non essere costretti a un insegnamento infallibile, che natura sua deve essere perfettamente vero e sicuro e, per la sua divina indefettibilità, non permette nessuna ambiguità – l’ambiguità è un difetto – nemmeno a volerla, e dunque nessuna “interpretazione”.
Il grado dogmatico, il grado massimo di insegnamento, detenuto solo dal Papa, o da un Concilio ma solo se unito al Papa, è il vero e unico Katéchon che può imbrigliare l’Anticristo. Il Katéchon è il Dogma.
Togliete il Dogma e liberate l’Anticristo.
E non c’è bisogno di toglierlo davvero, il Dogma: basta nasconderlo, come consigliò l’astuto Porporato francese al placido Papa bergamasco, e poi far finta che non ci sia, e usare il grado pastorale di Magistero con spericolatezza: come se questo grado pastorale non dipenda in tutto e per tutto e non abbia il preciso obbligo morale di essere sempre il più possibile coerente e il più esattamente conseguente al Dogma, come è stato sempre vissuto e di conseguenza attuato nei secoli dal santo Magistero della Chiesa.
Ecco: per liberare l’Anticristo è sufficiente questo svaporamento di fatto del Dogma, questo “non tenerne conto”, quest’astuta “dimenticanza”, chiamiamola così, che naturalmente è del tutto immorale, peccaminosa, basata su un machiavellismo elaborato sulla Parola di Dio.
Una regoletta semplice semplice. E ferrea: se il Papa convoca un Concilio cui toglie ogni possibilità di enunciare una locutio ex cathedra, per esempio prescrivendogli la forma di Magistero detta “pastorale”, le definizioni che quel Papa esporrà in quel Concilio “non correranno mai il rischio, chiamiamolo così, di essere infallibilmente vere”, ed è questo che il cardinale Suenens e Papa Roncalli volevano centrare e di fatti centrarono: “Non essere costretti mai a dire verità infallibili, ma, al contrario, essere certi di poter dire sempre qualsiasi cosa, magari anche qualche eresia (purché non si veda, ma per questo basta equivocare sul linguaggio, grazie Schillebeecks), tanto: primo, il Papa non potrà mai essere accusato di eresia formale, cioè propriamente di eresia; secondo, non sarà mai intaccato il Dogma dell’infallibilità, il Dogma che ci garantisce proprio questo”.
Per tutti i dettagli sul maxi-trappolone, visionare il mio All’attacco! Cristo vince, Edizioni Aurea Domus, Milano 2019, § 16, pp. 63-7 (richiedibile anche a chi qui scrive).
Questo perverso meccanismo è il motore, il perno, la causa materiale ed efficiente, il genius absconditus dell’abnorme e vuota costruzione modernista che è diventata oggi la Chiesa, è il meccanismo senza il quale la Chiesa dunque non sarebbe la rovina preagonica che è, il Modernismo non sarebbe riuscito a scalzare dal Trono più alto la Verità, la Sposa di Cristo sarebbe oggi più splendida, santa e gloriosa che mai.
Eppure, malgrado ciò, di questo perverso congegno, che chi scrive ha riassunto nella formula di “Guerra delle due Forme”, parlandone e illustrandolo in tutte le lingue da più di dieci anni, nessuno ha mai discusso, nessuno lo ha mai neanche minimamente considerato, nessuno si è girato un attimo a guardarlo neanche nello specchietto retrovisore.
Oggi un arcivescovo ha il coraggio di prendere le carte in mano, carte sopite da quasi sessant’anni di vergognose astuzie elaborate prima di tutto dai Pastori più alti e responsabili della Chiesa.
Oggi l’arcivescovo Carlo Maria Viganò non ha timore di riconoscere che il Concilio Vaticano II va cancellato sia nella sua totalità che in ciascuna di tutte le mille ambiguità cui i suoi fautori ricorsero per far passare concetti che se esso fosse stato aperto nella dovuta forma dogmatica sarebbero stati non solo con forza rigettati, ma anche esplicitamente e ancor più duramente anatemizzati.
Basta con i maxi-trappoloni alla Roncalli-Ratzinger. E che la Chiesa riprenda la sua strada di unica Polare di divina salvezza stringendosi con forza e decisione assoluta alla ferma schiettezza del Dogma: «Il vostro parlare sia sì sì no no, il resto viene dal maligno» (Mt 5,13).
Enrico Maria Radaelli