Con questo intervento Aurelio Porfiri contesta il grande dogma contemporaneo dell’uguaglianza a ogni costo.
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Oggi viviamo di mitologie, di narrative presentate come verità che non possono neanche essere discusse, che devono essere per forza accettate, pena il trovarsi al di fuori del consesso civile. In questo modo, ogni dibattito diviene praticamente impossibile: le persone dissenzienti rispetto alla narrativa dominante sono emarginate e neutralizzate.
Per esempio, c’è questa idea dell’egualitarismo, secondo la quale saremmo “tutti uguali”. Ora, in questa affermazione c’è una verità, in quanto davanti a Dio siamo veramente tutti uguali: Dio infatti non fa differenze, se non quelle che derivano dal nostro comportamento più o meno conforme alla sua volontà. Ma dire che a livello sociale siamo tutti uguali, tanto che, per esempio, l’opinione della persona meno preparata equivale a quella di colui che ha cercato di informarsi e di studiare, è palesemente ingiusto. Eppure, gran parte della politica e anche dello spettacolo degli ultimi decenni ci ha trasmesso proprio questa idea, ovvero che ogni opinione, qualunque sia il livello di preparazione e consapevolezza di chi la esprime, dev’essere accettata a priori. Certo va ascoltata, ma bisogna esaltarla?
Quando diciamo Leopardi tutti pensiamo a Giacomo e pochi al padre, Monaldo, che fu un personaggio interessante, intellettuale di una certa profondità. Nel sul Catechismo filosofico dice quanto segue: “Dunque l’uguaglianza è anch’essa una frottola spacciata dalla filosofia moderna, e gli uomini non sono uguali, ma bensì disuguali per ordine e disposizione della natura”. La disuguaglianza è un fatto, non un giudizio. Io non posso pensare che la mia opinione sull’informatica valga quella di un ingegnere informatico. Magari potrei dire anche qualcosa di intelligente, ma è ovvio che lui è in una posizione migliore della mia per poter dire qualcosa di più completo e coerente.
Qui naturalmente si annida il pericolo contrario, quello del culto degli esperti, che è anche pericoloso. Abbiamo visto in questo tempo di pandemia come i vari esperti si contraddicevano l’uno con l’altro. Ciò non significa tuttavia che l’opinione del giornalaio sulla pandemia equivalga a quella di un virologo.
La televisione negli ultimi decenni ha fatto in modo che si presentassero come valide le opinioni di tutti e i social networks hanno completato questo processo.
Quando dico che non siamo tutti uguali non esprimo una preferenza per un certo tipo, né sostengo che alcuni debbano essere favoriti rispetto ad altri. Affermo semplicemente una verità naturale.
Da un certo egualitarismo deriva anche l’idea che l’uomo e la donna devono essere uguali, il che è palesemente falso. L’uomo deve essere uomo con le sue caratteristiche e così la donna: questa è la bellezza e la ricchezza della differenza.
La femminilità in una donna è ciò che la fa veramente donna, così come la mascolinità in un uomo. Questo poi non significa e non deve significare che le donne non possono accedere a certe professioni, che a volte svolgono molto meglio di tanti uomini. Questo è un problema che si pone su un piano differente. Io conosco, per esempio, medici chirurghi donne, ottime professioniste e che comunque rimangono donne, senza scimmiottare gli uomini.
Questa idea che siamo tutti uguali mi fa anche un po’ paura. Bisogna invece celebrare la differenza. Ripeto: siamo tutti uguali davanti a Dio, nel senso che Dio ci ama tutti come suoi figli e si compiace di coloro che si adeguano ai suoi comandamenti. Ma anche per coloro che non lo fanno, coloro che si allontanano dalla retta via, Dio sa conservare il suo amore e non abbandona nessuno. Sul piano soprannaturale l’uguaglianza è garantita dallo sguardo divino, ma non così in natura. Non possiamo divinizzare la società, lo Stato, il partito. Invece è proprio ciò che succede quando si pretende di cancellare le differenze a favore di un’uguaglianza fittizia, imposta per via ideologica.
Un cittadino nato e cresciuto in un certo paese è diverso da uno venuto da fuori. Non si dice migliore o peggiore: è diverso. Non è una differenza di valore assoluto: è relativa alle condizioni sociali e culturali. Come dice Leopardi, alla “disposizione della natura”.
Ci sono alcune persone che ricevono talenti che altre non ricevono. Si badi bene: da un punto di vista cristiano, a chi più riceve più sarà chiesto. Quindi, il fatto di aver ricevuto di più da Dio è in fondo una grande responsabilità. Nella società ci sono gerarchie, e tutti dipendiamo da altri per certe cose. Ci sono persone che in certi campi hanno più preparazione, più esperienza di altri. Se io sto male vado da un medico, non chiedo l’opinione del fruttivendolo. Le differenze mandano avanti il mondo.
Michael Shermer su thevision.com dice: “Un’utopia è una visione idealizzata di una società perfetta; l’utopismo, invece, è l’applicazione pratica di tale idea, ed è qui che iniziano i problemi. Thomas More coniò il neologismo nel 1516, nella sua opera omonima che lanciò il genere letterario dell’utopia. L’etimologia del termine indica un non-luogo, perché quando gli imperfetti umani tentano di raggiungere la perfezione – personale, politica, economica o sociale – falliscono. Lo specchio nero delle utopie sono le distopie: gli esperimenti sociali falliti, i regimi politici repressivi e i sistemi economici prepotenti, che risultano dal fallimento degli utopismi. La convinzione che gli esseri umani siano perfettibili porta inevitabilmente all’errore di voler progettare società esemplari per una specie che, in realtà, è manchevole. Non esiste un modo di vivere che sia migliore in assoluto perché esiste una grande varietà di stili di vita a cui le persone aspirano; non esiste la società migliore, ma solo una serie di modelli dettati dai vari aspetti della nostra natura. Ad esempio, quando le teorie sociali basate sulla proprietà comune, sul lavoro comunitario, sulle regole autoritarie e sull’economia di Stato si scontrano con i desideri di autonomia, individualità e libero arbitrio – desideri innati nell’essere umano – le utopie sono particolarmente vulnerabili. Inoltre, le naturali differenze nelle abilità, negli interessi e nelle inclinazioni dei membri di un gruppo portano a ineguaglianze nei risultati e, dunque, a stili di vita imperfetti e condizioni lavorative che le utopie egualitarie non possono tollerare. Come spiegato da uno dei primi cittadini della comunità di New Harmony, fondata nell’Indiana (USA) nel diciannovesimo secolo da Robert Owen: ‘Abbiamo tentato ogni forma di organizzazione e governo concepibili. Abbiamo creato un mondo in miniatura. Abbiamo ricreato la Rivoluzione francese, finendo con l’ottenere cuori disperati al posto dei cadaveri. È stato come se la legge naturale della diversità ci avesse conquistato. Il nostro interesse comune era in guerra con le individualità delle persone, con il loro istinto di preservazione di sé, e con le circostanze’.”
Quando si ricerca la società perfetta, fondata su un egualitarismo che non esiste in natura e nell’ordine soprannaturale (Dio ci ama allo stesso modo, ma ci ha creati diversi), si va incontro a disastri.
Aurelio Porfiri
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