11 settembre 1894: muore Gino Galgani, il fratello tanto amato da santa Gemma. E la giovane mistica annota nella propria biografia: “Io pure amavo Gino più di tutti: si stava sempre insieme; nei giorni di vacanza ci divertivamo a fare altarini, feste, ecc.; si stava sempre soli. Mostrò desiderio, quando fu grandicello, di essere prete; allora fu messo in Seminario, e fu vestito; ma pochi anni dopo morì. Nel tempo che fu a letto, non voleva che io mi allontanassi da lui. Il medico l’aveva spedito affatto, e a me che mi dispiaceva tanto che dovesse morire, per morire io pure mi servivo di tutta la roba sua; e poco mancò che non morissi davvero, perché un mese dopo che fu morto, mi ammalai io pure gravemente” (Gemma Galgani, Autobiografia).
Dunque apprendiamo dalle parole di Gemma Galgani che il distacco dal fratello tanto amato, distacco dovuto a un malanno infettivo, arrivò a turbarla al punto che lei pure cercò di infettarsi per morire come il fratello e raggiungerlo nuovamente. Rileggere questo passo, ormai classico nella tradizione passionista, obbliga a fare più di una considerazione sul nostro tempo e sul nostro cammino di cristiani.
Fisserei quattro punti, alla luce dei quali rileggere l’aneddoto riportato.
Anzitutto, per quanto fossimo all’inizio del Novecento e non si disponesse di importanti schiere di virologi, era evidentemente risaputo quali fossero i rischi di contagio, e la stessa Gemma ce ne dà un saggio semplice e schietto. Ne consegue che la decisione di Gemma, di usare la “roba” del fratello, e così rischiare di infettarsi, non è fortuita bensì consapevole.
In secondo luogo, ricordiamo che Gemma Galgani fu accusata di isteria e giudicata pazza dai medici contemporanei. Lo puntualizzo, affinché non si pensi che anelare alla morte cento anni fa fosse normale mentre oggi sarebbe assurdo. Allora Gemma fu considerata pazza dal mondo, come immagino sarebbe stimata oggi da noi.
Terzo assunto: Gemma Galgani, tenuto conto della sua condizione di apparente follia, è stata elevata agli onori degli altari e dichiarata santa in tempi di santità eroica. Alla luce di ciò siamo tenuti a giudicare edificanti i suoi esempi e i suoi scritti. Anche per il cristiano di oggi la scelta di mettere a rischio la propria salute in nome di un amore fraterno va dunque considerata espressione di carità: si tratterà di una carità eroica, ma appunto è carità.
Il quarto appunto è un tentativo ermeneutico, che vorrei suggerire. Vi è una chiave di lettura che considero strategica, e che ci permette di giudicare favorevolmente l’esempio di Gemma: decifrare la vita della mistica lucchese in termini di amore oblativo. Se noi interpretiamo la scelta di Gemma come un crollo emotivo e come una sorta di atto masochistico, difficilmente riusciremo ad apprezzarne la bontà (e la sua canonizzazione ci risulterà scandalosa). Ciò diviene facile, all’opposto, se leggiamo l’agire della Galgani come espressione di estremo amore: l’amore che spinge l’amante ad assomigliare all’amato. E se l’amato muore, l’amante desidera seguirlo e non ricusa di seguirlo per le vie del dolore. Tale chiave di lettura credo inquadri bene la missione passionista di Gemma nel suo insieme, con annessi fenomeni mistici di cristopatia, mentre fa luce sul valore dell’impeto che la portò ad ammalarsi dopo la morte del fratello Gino.
Al che non ci resta che trarre gli insegnamenti debiti. E l’insegnamento che colgo è il seguente. I fatti presentati non possono essere categorizzati in termini storicistici (all’epoca si faceva così, oggi non più), psichiatrici (Gemma era isterica), psicologici (Gemma era emotivamente fragile), bensì vanno assunti come espressione di ecclesialità: Gemma è santa e i suoi scritti e atti e stati sono per noi esemplari. Quale che sia il giudizio complessivo che il lettore riesce a esprimere sul caso Gino-Gemma, alla luce delle premesse è chiaro che esso ci mostra come la carità cristiana, in una delle sue somme manifestazioni mistiche, si sia espressa nel disprezzo della propria salute e nella protensione verso l’altro e la relazione con l’altro. La carità cristiana cerca il bene altrui, che in primo luogo non significa fare del bene all’altro quanto godere del bene che scaturisce dalla comunione con l’altro.
Ma se questo è vero, e se tale è la lezione che riceviamo dalla Galgani, dobbiamo ritenere che la situazione attuale – segnata dalla mera preoccupazione della salute del singolo, restia nel fare il bene e propensa a congelare le relazioni, giunta al punto di sacrificare barbaramente i legami fino ad abbandonare a sé i moribondi nella solitudine e a condannare gli infanti a una burocrazia scolastica anaffettiva e traumatica – sia antipodica all’espressione della carità cristiana.
Non dico che l’esempio di Gemma sia da replicare nel suo radicalismo. Dico che non è stato un caso di pazzia, né di fragilità emotiva, né che sia circoscrivibile agli usi del suo tempo; dico che è stato benedetto dalla voce della Chiesa. Dico che è paradigma della carità cristiana nella sua essenza e nella sua massima concentrazione. Dico che lì c’è il sugo della storia per ogni cristiano e per la Chiesa. Dico che deve riaprire i nostri occhi sul fatto che la società ci ha imposto settimane e settimane di relazioni sociali improntate a un’antropologia anticristiana, individualista, autocentrata, egoista, salutista, in cui lo spazio per il dono di sé, il valore dell’altro (non l’ipotetico “altro” che noi tuteliamo usando le mascherine, ma l’”altro” concreto che è stato abbandonato nei reparti ospedalieri e nelle bare accatastate), l’anelito alla comunione e lo sguardo all’eternità sono stati erosi e tacitati.
Ora, un conto è seguire i santi nel loro eroismo estremo, altro conto è camminare in direzione ostinata e contraria rispetto a loro. Che ne pensate? E dunque, che gli esempi dei nostri santi ci aprano davvero gli occhi, perché altrimenti rischiamo di perdere la nostra originalità e la nostra identità. E in merito a tale rischio l’insegnamento del Signore è chiaro: “Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini”.
Accettare di perdere sapore, in nome di qualsivoglia ragione più o meno conveniente, non potrà in alcun modo giovare a noi cristiani, ma potrà predisporci a un solo destino: esser rigettati e calpestati dal mondo.
Don Marco Begato