Cari amici di Duc in altum, sulla nuova traduzione italiana del Messale di Paolo VI propongo questo intervento di don Mauro Tranquillo, della Fraternità sacerdotale san Pio X.
A.M.V.
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Recentemente la Conferenza episcopale italiana ha annunciato il termine dei lavori per una nuova traduzione del Messale di Paolo VI. Si sono scatenati a riguardo commenti di ogni genere, spesso pieni di fantasie. Da dove viene questa nuova edizione del nuovo messale e cosa dovremmo pensarne? Quali critiche sono fondate e quali sono invece frutto di menti effervescenti, che vogliono a tutti i costi mostrare Papa Bergoglio come diverso (e peggiore) rispetto a Paolo VI?
Le diverse edizioni tipiche del messale di Paolo VI
Il 3 aprile 1969, con la Costituzione apostolica Missale Romanum, Paolo VI promulgava un nuovo messale, destinato ad entrare in vigore il successivo 30 novembre, I domenica di Avvento di quell’anno. L’edizione latina di tale libro, uscita nel 1970, è la prima edizione tipica (secondo il termine comunemente usato per i libri liturgici), cioè quella che deve fare da modello alle successive ristampe, anche quando eventualmente modificate in qualche elemento minore (per esempio con l’introduzione di nuove feste o simili). La prima edizione italiana completa di tale libro fu pubblicata nel 1973 (nel frattempo erano correnti traduzioni parziali e fascicoli). Nel 1972 Paolo VI aveva prodotto un’edizione corretta da errori di stampa del suo messale; una seconda edizione tipica uscì invece nel 1975, soprattutto allo scopo di eliminare dalle rubriche le menzioni del ruolo del suddiacono, ordine soppresso nel 1972 con la lettera apostolica Ministeria quaedam. La traduzione italiana di questa seconda edizione tipica fu pubblicata nel 1983, ed è quella che è rimasta finora in vigore. Si può dire che a livello dei testi essa non differisca in nulla dalla precedente.
In seguito ai lavori iniziati nel 1991 dalla Congregazione per il culto divino, Giovanni Paolo II ha curato una terza edizione tipica del Messale Romano (sempre quello di Paolo VI) da lui approvata il 10 aprile del 2000 e pubblicata nel 2002. Le prime due edizioni tipiche si presentavano come Missale Romanum ex decreto sacrosancti oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, auctoritate Pauli PP. VI promulgatum; alla terza è stato aggiunto Ioannis Pauli PP. II cura recognitum. Nel 2008 (sotto Papa Ratzinger) uscì una versione corretta di questa medesima edizione tipica. Questa terza edizione tipica aveva dichiaratamente come scopo principale la ricezione nelle rubriche delle norme del codice di diritto canonico del 1983, in quanto toccano la celebrazione eucaristica.
Occorre notare che una nuova edizione tipica non è un nuovo messale: nella fattispecie, è lo stesso Messale di Paolo VI, con qualche piccola modifica o aggiunta (generalmente di feste) o correzione di rubriche. Lo stesso Messale di San Pio V, pur restando sempre il Messale di san Pio V e del Concilio Tridentino, ebbe tra il 1570 e il 1962 sei edizioni tipiche, senza che questo ne cambiasse la natura.
Tale terza edizione tipica latina (del 2002/2008) doveva servire dunque come base alle nuove traduzioni nelle lingue correnti. Rispetto alle edizioni precedenti, si caratterizzava per qualche arricchimento eucologico (prefazi, formulari per alcune messe), qualche festa e la reintroduzione più larga del gregoriano (come faceva notare l’allora segretario del Culto divino, monsignor Tamburrino, nella presentazione del 18 marzo 2002). Un’edizione tipica comunque ispirata a un certo conservatorismo, anche per l’integrazione (nella versione del 2008) di alcune delle norme ribadite nella famosa istruzione della Congregazione del culto divino Redemptionis Sacramentum, considerata dai conservatori come una delle massime espressioni della “regolamentazione” del post-concilio. Tale revisione del 2008 prevedeva anche la soppressione della cosiddetta “messa dei fanciulli”, uno dei formulari post-conciliari più lontani dall’espressione anche vaga della dottrina cattolica; inoltre reintroduceva il termine anima nelle messe dei defunti, eliminato ai tempi di Paolo VI.
Se per noi, che rigettiamo il Messale di Paolo VI come tale, tali edizioni non comportano un sostanziale cambiamento di giudizio (trattandosi, lo ribadiamo, del medesimo libro con cambiamenti del tutto accidentali), non si capisce perché dovrebbe cambiare il giudizio in chi tale libro accetta da decenni, soprattutto che abbiamo nel testo latino dei cambiamenti di stampo piuttosto conservatore. Forse è la nuova traduzione della Cei a porre problemi insormontabili? Cerchiamo di procedere nella nostra ricerca.
Dalla terza editio typica del 2002 alle traduzioni
La nuova edizione tipica richiedeva ora la propria versione nelle innumerevoli lingue volgari. Qualsiasi liturgia in volgare, lo facciamo subito notare, richiede necessariamente una costante revisione dei testi, poiché il volgare è per definizione in costante evoluzione. Una delle ragioni per cui la Chiesa conservava il latino era proprio la sua stabilità espressiva. Non sembra dunque poter essere oggetto di critica, se si accetta l’uso del volgare, il fatto che ci si debba abituare a costanti revisioni e cambiamenti.
Le diverse conferenze episcopali furono dunque immediatamente coinvolte nell’opera di revisione delle proprie traduzioni, con risultati e tempi molto diversi. Il 20 marzo 2001, prima ancora della pubblicazione dell’edizione latina (approvata tuttavia nel 2000 dal Papa, come abbiamo visto), usciva l’istruzione della Congregazione per il culto divino Liturgiam authenticam, che imponeva alle conferenze episcopali di procedere sotto lo stretto controllo della Santa Sede e di attenersi a una traduzione per quanto possibile letterale. In questa linea, una lettera della Congregazione del culto divino del 17 ottobre 2006 ai presidenti delle Conferenze episcopali chiedeva di rispettare il senso dell’espressione pro multis nelle parole della consacrazione del Preziosissimo Sangue. Il principio fu ribadito dallo stesso Benedetto XVI con una lettera del 14 aprile 2012 a monsignor Zollitsch, arcivescovo di Friburgo, presidente della Conferenza episcopale tedesca.
Nel 2006 usciva la prima versione in lingua corrente di questa edizione, quella in greco moderno. La versione inglese, comune a tutti i paesi anglofoni, usciva nel 2011, reintroducendo una traduzione letterale del “pro multis” e una versione più elegante e vicina al latino di tutti i testi. Nel mondo anglosassone tale nuova traduzione (fortemente rimaneggiata) fu considerata un trionfo del partito “conservatore”, provocando ira e risentimento nel clero più progressista. La versione tedesca usciva nel 2013; quella per la Spagna (in castigliano), approvata l’8 dicembre 2015, è entrata in vigore il 5 marzo 2017, con il ripristino del por muchos invece del por todos los hombres della versione precedente; la versione francese, approvata il 1° ottobre 2019, entrerà in vigore nell’avvento 2020, secondo quanto annunciato dalla Conferenza episcopale francese: tale traduzione ripristina, per il Credo, la traduzione esatta di consubstantialem (“della stessa sostanza”, che sotto Paolo VI era stato tradotto con “della stessa natura”, con conseguenze dottrinali gravissime). Sorvoliamo ovviamente sulla situazione delle traduzioni in altre lingue, avendo riportato questi casi a titolo di esempio della varietà di tempi e risultati della stessa operazione.
In questo quadro si situa la pubblicazione, il 3 settembre 2017, del motu proprio Magnum principium di papa Francesco, che tende ad ampliare il potere delle Conferenze episcopali nella traduzione e promulgazione dei testi liturgici, pur sempre sotto la vigilanza e la revisione della Congregazione per il culto divino.
La Conferenza episcopale italiana, dopo aver pubblicato il noto lezionario con la nuova traduzione dei testi biblici nell’avvento 2007, è arrivata a produrre solo recentemente un messale italiano conforme all’edizione tipica del 2002/2008: a settembre 2019 il Consiglio permanente della Cei ha emesso un comunicato che dichiarava conclusi i lavori della nuova versione, ufficialmente approvata nel corso della LXXII Assemblea generale dei vescovi italiani, tenutasi in Vaticano tra il 12 e il 15 novembre. Dopo la dovuta approvazione romana, il nuovo messale italiano dovrebbe essere disponibile in primavera, anche se è probabile che non entri in vigore prima dell’avvento.
Citiamo qui alcuni passaggi del comunicato finale della Cei: «Nell’intento dei vescovi, infatti, la pubblicazione della nuova edizione costituisce l’occasione per contribuire al rinnovamento della comunità ecclesiale nel solco della riforma liturgica […] Come è stato evidenziato, si tratta di assumere il criterio di «nobile semplicità» per riscoprire quanto la celebrazione sia un dono che afferma il primato di Dio nella vita della Chiesa. In quest’ottica si coglie la stonatura di ogni protagonismo individuale, di una creatività che sconfina nell’improvvisazione, come pure di un freddo ritualismo, improntato a un estetismo fine a se stesso. La liturgia, hanno evidenziato i vescovi, coinvolge l’intera assemblea nell’atto di rivolgersi al Signore. Richiede un’arte celebrativa capace di far emergere il valore sacramentale della Parola di Dio […] Per dare sostanza a questi temi, si è evidenziata l’opportunità di preparare una sorta di “riconsegna al popolo di Dio del Messale Romano” con un sussidio che rilanci l’impegno della pastorale liturgica». Emergono i temi conciliari della liturgia come opera di un’assemblea, della quale fanno parte i ministri, e dell’ecclesiologia del “popolo di Dio”. La liturgia non è ovviamente più l’opera del Cristo tramite i suoi ministri, della quale beneficia il popolo dei battezzati come ricevente. Si fa riferimento al valore sacramentale della Parola di Dio, come da prassi ormai unica espressione della Presenza del Cristo ad essere menzionata, e di fatto più importante della Presenza sacramentale vera e propria (che non è minimamente citata).
Un breve esame di alcune controversie
Dopo sedici anni sembra dunque pronta la versione italiana della terza edizione tipica del Messale di Paolo VI. Ripetiamo: del Messale di Paolo VI, perché questa edizione latina è sostanzialmente identica a quella del 1970, e quindi anche la versione italiana non potrà essere così differente. A parte i nuovi testi eucologici che comprende, il dibattito si è focalizzato sui punti più notevoli e già resi noti. Si è quasi voluto insinuare (vedremo poi perché) che le modifiche annunciate fossero tali da creare un “nuovo” nuovo messale. In realtà ci preme qui mostrare l’inanità di molte delle critiche mosse dai settori conservatori. Nell’ultima parte dell’articolo cercheremo di valutare tutto questo sommovimento ecclesiale per quello che realmente vale.
Il Confiteor
La nuova versione del Confiteor, distanziandosi in questo dall’originale latino (quello montiniano, s’intende), aggiunge la parola “sorelle”, in omaggio alla parità di genere. Sicuramente una mossa tanto politicamente corretta quanto inutile.
Il Gloria
Il nuovo incipit dell’inno angelico, ripreso dalla nuova traduzione del Vangelo (già presente nei lezionari del 2007), dice “Gloria a Dio nell’alto dei cieli, e pace in terra agli uomini, amati dal Signore”. Non è qui sede per entrare nel dibattito esegetico che da molto tempo volge sul termine greco εὐδοκίας, tradotto in latino con bonae voluntatis: secondo alcuni interpreti tale “buona volontà” sarebbe quella divina, come una predilezione. Il senso sarebbe dunque “pace agli uomini che sono nella predilezione divina, nella buona volontà di Dio”, cioè coloro che si è scelto. Tale senso, del tutto ortodosso, non è però quello che la nuova traduzione intende (e a nostro avviso non è stata fatto sufficientemente notare questo aspetto). Infatti inserendo una virgola dopo “uomini”, si lascia intendere che questa pace è destinata all’universalità degli uomini, “amati dal Signore”. L’assenza della virgola avrebbe predicato l’attributo “amati” in modo da distinguere gli uomini prescelti dagli altri; la presenza della virgola ci fa ricadere nella consueta questione della salvezza universale, tanto cara ai modernisti.
La “rugiada” dello Spirito Santo
Una delle polemiche più sterili ed assurde è stata quella, tanto agitata da alcuni settori, sul termine “rugiada”. Veniamo ai fatti. La controversia riguarda la seconda preghiera eucaristica, della quale già nel 1969 il “Breve esame critico” del Novus Ordo Missae, firmato dai cardinali Ottaviani e Bacci, diceva: «Abbiamo sorvolato sui nuovi canoni, di cui il secondo ha immediatamente scandalizzato i fedeli per la sua brevità. Di esso si è potuto scrivere, tra molte altre cose, che può essere celebrato in piena tranquillità di coscienza da un prete che non creda più né alla transustanziazione né alla natura sacrificale della Messa, e che quindi si presterebbe benissimo anche alla celebrazione da parte di un ministro protestante». Una pesantissima critica come si vede, finora ignorata dai “conservatori” che con tale preghiera hanno detto serenamente la Messa per decenni. Il testo latino di questo “canone”, frettolosamente composto da pseudo-esperti negli anni Sessanta, dice testualmente: «Hæc ergo dona, quǽsumus, Spíritus tui rore sanctífica», che letteralmente significa «Ti preghiamo, santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito». Finora la traduzione italiana aveva preferito al termine metaforico “rugiada” un meno letterale “effusione”, ma non sfugge a nessuno che il senso sia esattamente lo stesso. Il termine “rugiada dello Spirito Santo”, di per sé, non ha nulla di reprensibile: viene dalla Santa Scrittura ed esisteva anche nell’antica liturgia (seppure in tutt’altri passaggi). Si è quindi semplicemente passati a una traduzione più letterale di un testo latino in vigore dal 1969, che aveva finora avuto in italiano una semplice traduzione a senso. Ignorando quindi le gravi e strutturali deficienze di questo canone, denunciate dal “Breve esame critico” più di cinquant’anni fa, alcuni ambienti si sono attaccati alla denuncia della “rugiada” con fantasiose argomentazioni, facendo tra l’altro derivare tale espressione dalla (peraltro gravissima e da noi pesantemente denunciata) ecoteologia di papa Francesco. Non è mancato chi, con sfoggio di ignoranza, ha voluto paventare l’invalidità della messa in seguito alla sostituzione di “effusione” con “rugiada”, come se avessero significati diversi. Tale crasso errore ne sottintende uno ben più grave, cioè che sia necessaria l’invocazione dello Spirito Santo (la cosiddetta epiclesi) per realizzare la transustanziazione. La dottrina cattolica ci insegna invece che a realizzare la transustanziazione sono le sole parole del Cristo (“Questo è il mio Corpo… Questo è il calice del mio Sangue”). Il rito romano tradizionale non ha mai previsto alcuna epiclesi, anzi tali invocazioni sono state inserite nei nuovi canoni per motivi puramente ecumenici, visto che sono gli ortodossi (o almeno alcuni di loro) a sostenere che l’epiclesi (presente nei riti orientali da sempre) sia indispensabile alla consacrazione. Tale tesi è stata più volte condannata, oltre che dal Concilio di Firenze (DS 1321 e 1352), da una lettera di Pio VII dell’8 maggio 1822 (DS 2718) e da un’altra di san Pio X del 26 dicembre 1910 (DS 3556): è verità di fede che siano le sole parole del Cristo a realizzare il Sacramento.
Il Pater noster
Il grande pubblico ha parlato soprattutto del cambiamento di traduzione della penultima petizione del Pater: per insistente richiesta del Papa, e concordemente alla nuova versione dei Vangeli, «non ci indurre in tentazione» è stato sostituito con «non abbandonarci alla tentazione». Occorre precisare che il senso di questa petizione non è mai stato inteso come se Dio tentasse l’uomo al male. Ciò è contrario alla Scrittura, e a nessuno è mai venuta in mente una sciocchezza simile. Anzi, il catechismo tridentino spiega: «Diciamo di essere indotti in tentazione, quando cediamo alla medesima. Ora noi possiamo esservi indotti così in due modi: primo, quando, rimossi dal nostro stato, precipitiamo nel male, verso il quale qualcuno ci ha spinto col tentarci. Ma nessuno è in questo modo indotto in tentazione da Dio, perché per nessuno Dio è causa di peccato, odiando egli tutti quelli che commettono iniquità (Sal. 5,7). E quanto dice san Giacomo: nessuno, tentato che sia, dica di essere tentato da Dio; poiché Dio non è tentatore al male (I,13); secondo, possiamo essere tentati, nel senso che uno, sebbene non tenti egli stesso né si adoperi a farci tentare, tuttavia lo permette, mentre potrebbe impedire sia la tentazione che il prevalere di essa. Ebbene, Dio lascia che così siano tentati i buoni e i pii, senza privarli però della sua grazia». Così spiegato, è evidente che la vecchia traduzione italiana e la nuova significano la stessa cosa. Quello che può essere spiacevole è la perdita di una formula consolidata dall’uso (ma con il volgare queste cose sono inevitabili), e soprattutto il modo con cui papa Bergoglio ha presentato questa riforma: si direbbe che fino a lui tutti avessero capito male il senso delle parole della preghiera del Signore. Per citare un solo esempio, nella settima puntata del programma Padre nostro, condotto da don Marco Pozza, andato in onda su Tv2000 il 6 dicembre 2017, il papa ha affermato che “Non ci indurre in tentazione” «non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice “non lasciarmi cadere nella tentazione”, sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito […] Quello che ti induce in tentazione è Satana, quello è l’ufficio di Satana».
Considerazioni e conclusioni. Cui prodest?
Il criterio della letterarietà della traduzione, per quel che riguarda l’italiano, è stato dunque seguito secondo una versione a geometria variabile: oltre gli esempi di cui sopra, si avrà un “Beati gli invitati alla cena dell’Agnello” (finora era “del Signore”), traducendo letteralmente il latino che riprende il testo dell’Apocalisse; ma non cambia la fantasiosa traduzione della risposta del centurione, che continuerà ad essere “Signore, non son degno di partecipare alla tua mensa”, al posto del letterale “che tu entri sotto il mio tetto”. Ugualmente restano le traduzioni improprie del pro multis come “per tutti” e di Deus Sabaoth come “Dio dell’universo” invece che “degli eserciti”.
Per questa terza edizione del Messale di Paolo VI vale, a nostro avviso, il giudizio dato sulla prima dai cardinali Ottaviani e Bacci e confermato da monsignor Lefebvre: essa si allontana in maniera impressionante, nell’insieme come nel dettaglio, dall’espressione della fede cattolica sulla Messa come formulata dal Concilio di Trento. Stesso giudizio perché identico messale, salvo piccole modifiche accidentali, tanto nella edizione tipica latina quanto nella traduzione italiana. Per questo non si capisce, di primo acchito, lo scalpore suscitato da alcuni commentatori intorno a cambiamenti teologicamente così poco rilevanti, soprattutto da chi accetta da decenni quel messale di Paolo VI che ha stravolto il culto cattolico in ogni singolo aspetto.
Polemiche frutto di ignoranza? O di malafede?
A nostro avviso esiste una spiegazione che si situa nel solco interpretativo che da tempo cerchiamo di dare alla situazione ecclesiale. “Grazie” al pontificato di Ratzinger si è creata ad arte una sorta di interpretazione conservatrice di Concilio e post-concilio, che considera superata la dialettica e la polemica tra l’ortodossia tradizionale e le novità eretiche degli ultimi decenni. Questa versione è stata data ad uso di quei gruppi che avrebbero certamente rifiutato nuovi passi in avanti (inevitabili nel percorso modernista), in modo che non avessero bisogno di ricorrere alla Tradizione e al Magistero preconciliare. Si può dunque oggi rifiutare (anche molto violentemente) papa Francesco facendo propri sia il concilio sia il post-concilio fino a Ratzinger. Si presenta dunque artificiosamente papa Bergoglio (che certamente ha aggravato la situazione, ma nello stesso solco e linea dei recenti predecessori) come colui che ha rotto con la Tradizione bimillenaria della Chiesa.
Questo atteggiamento è comune a severi porporati come a saltimbanchi del web, e solo recentemente qualche voce autorevole ha cominciato a cercare l’ortodossia oltre i fumogeni di quella che volgarmente è stata chiamata “ermeneutica della continuità”.
In questo quadro, il timore di una nuovissima Messa “invalida” è stato alimentato ad arte da diversi anni, e si è potuto appigliare solo a questa nuova edizione del messale italiano (traduzione, lo ricordiamo ancora, del messale latino di Paolo VI rivisto da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI). Nel febbraio 2017, un farneticante blog pieno di pseudonimi (anonimidellacroce), oggi chiuso, ma i cui testi sono ancora reperibili sul web, lanciava questa “notizia”: «La mia fonte confidenziale di Santa Marta, riferendomi qualche discussione sentita – tra un pranzo e l’altro – mi ha detto che in realtà il cambiamento della Messa, voluto da Bergoglio, ha un solo fine: quello ecumenico. Cioè “creare” una Messa che non sia in contrapposizione con i protestanti e quindi una liturgia che si possa celebrare “in comunione”. È questa la verità. E questo è il suo intento. Una liturgia perenne che sia però ecumenica. Ovviamente prevedo che Bergoglio per poter fare questo dovrà cambiare anche il testo della “Consacrazione”. Il che renderebbe la Messa invalida. E prevedo pure che chi si rifiuterà di celebrare con questo “nuovo rito” sarà considerato fuori dalla Chiesa». Questo tipo di lettura, fondata su immaginarie “confidenze” di immaginarie “fonti interne a Santa Marta”, ha creato a proprio uso e consumo la leggenda della promulgazione di una nuova Messa ecumenica e invalida, con cambiamento delle parole della consacrazione, come spauracchio e per creare una divisione netta tra Bergoglio e i predecessori conciliari. L’idea è stata ripresa in ambienti apocalittico-apparizionistici ma… non ha mai potuto nutrirsi di fatti, se non della nuova traduzione italiana di un messale che è usato da cinquant’anni da questi stessi critici di papa Francesco.
In pratica, quello che i nostri anonimi hanno annunciato gettando il panico nei semplici non è altro che… il messale stesso di Paolo VI! Creato per ragioni ecumeniche, non più contrapposto ai protestanti, imposto a tutti con la forza (e a tutt’oggi chi come noi non lo considera legittimo non è considerato in “piena comunione”). Un messale in cui sono già cambiate (da cinquant’anni) le parole della consacrazione: queste nel messale tradizionale sono solo “Questo è il mio Corpo… Questo è il calice del mio Sangue ecc.”. Al di là del problema della traduzione del pro multis, Paolo VI, nella costituzione apostolica Missale Romanum, ha appositamente deciso quanto segue: «Stabiliamo pertanto che in ciascuna delle Preghiere Eucaristiche, esse siano così espresse: sul pane: PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI: QUESTO È IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI; e sul calice: PRENDETE, E BEVETENE TUTTI: QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI (“molti” nell’originale latino, n.d.r.) IN REMISSIONE DEI PECCATI. FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME. L’espressione MISTERO DELLA FEDE, tolta dal contesto delle parole del Signore, e detta dal sacerdote, serve come da introduzione all’acclamazione dei fedeli».
Si dirà che queste nuove parole includono le precedenti: ma perché allora far diventare “parole della consacrazione” anche le parti del discorso (“prendete e mangiate/bevete… fate questo…”) che non significano né producono la transustanziazione? Semplicemente perché le parole della consacrazione diventano tutto il discorso diretto del protagonista di un racconto: la nuova Messa suggerisce un tono narrativo che, nel caso finisse per escludere quello consacratorio, renderebbe la consacrazione invalida per difetto di intenzione. Non sono degli “anonimi” del 2017 a dire questo, ma i cardinali Ottaviani e Bacci nel 1969: «Il modo narrativo è ora sottolineato dalla formula: “narratio institutionis” (n. 55d), e ribadito dalla definizione della anamnesi, dove si dice che “Ecclesia memoriam ipsius Christi agit” (n. 55c). In breve: la teoria proposta per l’epiclesi, la modificazione delle parole della Consacrazione e dell’anamnesi, hanno come effetto di modificare il modus significandi delle parole della Consacrazione. Le formule consacratorie sono ora pronunciate dal sacerdote come costituenti una narrazione storica e non più enunciate come esprimenti un giudizio categorico e affermativo proferito da Colui nella cui persona egli agisce: “Hoc est Corpus meum”».
Nella relativa nota, si aggiunge: «Le parole della Consacrazione, quali sono inserite nel contesto del Novus Ordo, possono essere valide in virtù dell’intenzione del ministro. Possono non esserlo perché non lo sono più ex vi verborum o più precisamente in virtù del modus significandi che avevano finora nella Messa. I sacerdoti, che, in un prossimo avvenire, non avranno ricevuto la formazione tradizionale e che si affideranno al Novus Ordo al fine di “fare ciò che fa la Chiesa” consacreranno validamente? È lecito dubitarne».
Ringraziamo quindi Dio delle posizioni prese da monsignor Lefebvre cinquant’anni fa, e ricordiamo sempre che non è l’attuale pontificato la causa di ogni male nella Chiesa. Il nostro rifiuto del Messale di Paolo VI e delle dottrine conciliari e post-conciliari non deve mai confondersi con teorie varie e peregrine su questo ultimo pontificato.
Don Mauro Tranquillo, FSSPX
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