Il Vaticano ha venduto beni derivanti da beneficenza per rimborsare un prestito di 242 milioni di euro. I soldi provenienti dalla beneficenza sono stati utilizzati per finanziare l’acquisto di immobili di lusso a Londra, determinando una «perdita enorme» per la Chiesa cattolica, secondo l’espressione usata da chi conosceva direttamente il prestito. È quanto scrive il Financial Times che torna a occuparsi dei misteri delle finanze vaticane.
Secondo un documento visionato dal giornale britannico, il prestito fornito dal Credit Suisse era garantito da un portafoglio titoli, che la Santa Sede ha definito «derivato da donazioni», della filiale di Lugano della banca svizzera.
La notizia che il fondo filantropico del Vaticano è stato ipotecato per effettuare pericolosi investimenti finanziari si aggiunge alle recenti rivelazioni secondo cui le autorità vaticane si sono impegnate in complesse operazioni di ingegneria finanziaria che hanno causato ingenti perdite.
Il mese scorso Angelo Becciu, che ha supervisionato questi investimenti tra il 2011 e il 2018, è stato accusato da papa Francesco di appropriazione indebita, ma Becciu, pur negando e annunciando che si difenderà, non ha risposto alle domande del Financial Times circa le donazioni usate come garanzia per i prestiti finalizzati a finanziare investimenti immobiliari.
«Il Vaticano – che a sua volta, sostiene il giornale economico-finanziario, si è rifiutata di commentare – ha scelto di ridurre volontariamente il suo debito verso le banche piuttosto che essere costretta a vendere i suoi beni, ha detto una persona informata. La Santa Sede, infatti, sta cercando di ridurre la sua esposizione creditizia».
Secondo un rapporto finanziario confermato dal Financial Times, la metà del patrimonio netto del Vaticano nel portafoglio del Credit Suisse, pari a 530 milioni di euro, era rappresentata da un fondo lussemburghese, Athena Capital. Il Credit Suisse era depositario del portafoglio, ma non ha fornito consulenza in materia di investimenti.
La Fondazione Athena avrebbe investito la maggior parte del denaro in un progetto di sviluppo di un condominio di lusso per uffici al numero 60 di Sloane Avenue, nell’area londinese di Chelsea.
Intanto arrivano altre tessere del puzzle e un’altra figura si aggiunge. Scrive Emiliano Fittipaldi su Domani: «Giuseppe Maria Milanese, chi era costui? Il presidente di una grande cooperativa che aiuta i disabili o uno dei grandi protagonisti dello scandalo finanziario che sta terremotando la Santa Sede? A leggere le carte inedite dell’inchiesta dei magistrati del papa, gli inquirenti sembrerebbero non avere dubbi: “Milanese è la figura che unisce tutti gli attori coinvolti in questa vicenda”, scrivono in una rogatoria i promotori di Giustizia. “Godendo della fiducia del Santo Padre, ha introdotto in Vaticano persone a lui vicine, anche con precedenti penali”. Per i pm Gian Piero Milano e Alessandro Diddi sarebbe stato infatti Milanese a far entrare il finanziere Gianluigi Torzi (indagato per estorsione e riciclaggio) nelle grazie della segreteria di Stato, e successivamente nel disastroso business del palazzo londinese. È ancora Milanese, si legge nel documento, l’uomo che farebbe affari poco chiari con altri indagati eccellenti, e l’imprenditore che vince appalti d’oro all’ospedale Bambino Gesù grazie a presunte raccomandazioni».
«Le accuse – scrive Domani – sono devastanti, e destano ora più di un imbarazzo. Non solo perché il professionista originario di Mesagne, secondo un documento redatto da Tirabassi e citato nella rogatoria (senza peraltro ulteriori evidenze), sarebbe sospettato addirittura “di forti legami con ambienti e persone della camorra pugliese”. Ma perché la denuncia travolge un amico fidato di Francesco, che stima il lavoro di Milanese e quello della sua associazione, tanto che negli anni gli incontri ufficiali e informali tra i due non si contano, con tanto di foto e video a dimostrarlo. Possibile che il papa si sia fidato della persona sbagliata? O gli investigatori hanno invece preso un granchio colossale?».
Molte le contestazioni mosse all’imprenditore, che per altro non risulta indagato né in Vaticano né in Italia. «Nel mirino sono finiti innanzitutto i rapporti con Torzi e il suo socio, Manuele Intendente, soggetti che secondo i magistrati avrebbero causato con l’operazione inglese un buco “da oltre cento milioni di euro” nelle casse della segreteria di Stato. L’accusa dei pm è che sarebbe stato proprio Milanese ad aprire loro le porte del Vaticano».
«Anche il Sostituto Edgar Peña Parra sostiene la stessa tesi: in una lettera finora inedita spedita il 22 marzo 2019 all’Autorità di informazione finanziaria (e sequestrata nelle perquisizioni di un anno fa) il monsignore evidenziava non solo come “nel mese di novembre 2018 la segreteria di Stato decideva di procedere al disinvestimento totale delle quote” del fondo di Mincione “con l’obiettivo di focalizzare l’investimento esclusivamente” sul palazzo di Sloane Avenue 60, ma pure di volersi affidare “al dottor Gianluigi Torzi, presentato dalla segreteria di Stato per il tramite dell’avvocato Manuele Intendente di Ernst&Young e del professor Renato Giovannini, rettore vicario dell’Università degli studi Guglielmo Marconi, a loro volta introdotti dal dottor Giuseppe Milanese e dal signor Andrea Falcioni, entrambi conosciuti in Vaticano”. Una ricostruzione clamorosa, visto che Peña Parra di fatto spiega all’antiriciclaggio di essersi fidato di Torzi per i buoni uffici che il broker vantava con l’amico di Francesco».
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