C’è una psicosi pandemica che non è più giustificata dall’emergenza sanitaria, ormai superata. Ma la paura del futuro, la rinuncia a vivere sono caratteristiche di società gerontocratiche e infertili, in cui la spinta vitale si è ormai quasi arrestata. Il panico da Covid è diventato un sintomo ed al contempo un propellente della loro decadenza.
L’”emergenza” Covid non è più sanitaria, ma in primo luogo politica, e in secondo luogo socio-psicologica. E queste due componenti concorrono in misura decisiva a creare una terza emergenza, la più grave di tutte: quella economica.
L’allarme sanitario in senso stretto si può circoscrivere al periodo tra febbraio e giugno, ed è consistito in un repentino, altissimo picco di mortalità tra individui molto anziani e gravati da patologie connesse all’età avanzata, in particolare tra quelli ricoverati in ospedali o cliniche e quelli ospitati in Rsa. Un picco concentrato soprattutto in paesi occidentali dall’alto tasso di longevità e dal basso tasso di fecondità, cioè con una forte sproporzione tra popolazione anziana e giovane, ed in zone metropolitane ad alta concentrazione di residenti.
A queste precondizioni si è aggiunto, favorito dal panico dell’impennata iniziale di casi gravi, un approccio rovinoso alla terapia, con un’ospedalizzazione disordinata, la mancanza di isolamento dei focolai, terapie che si sono dimostrate completamente sbagliate, allora consigliate dall’Oms sulla scorta dei resoconti provenienti dalla Cina.
In contesti così delineati si è innescato il circolo vizioso di letalità e paura che ha condotto alle politiche di “lockdown”, anch’esse ricalcate sul modello cinese, e attuate con maggiori restrizioni proprio in quei paesi: con risultati non esaltanti, dal momento che in essi la letalità si è attestata, in quei mesi, ai livelli più alti del mondo, rimanendovi (tra il 10 e il 15% di morti in relazione ai casi, e dai 600 morti per milione di abitanti in su).
A partire dalla tarda primavera, però, il rush di casi gravi e decessi legati a fattori gerontologici si è abbattutto rapidamente, e con esso si sono abbattuti i tassi di mortalità e letalità. L’estate, con la tendenza ovunque a minori concentrazioni di persone in luoghi chiusi, ha visto anche una discesa nettissima dei casi diagnosticati nei contesti dove la pandemia aveva mietuto il maggior numero di vittime.
Con l’autunno i casi diagnosticati sono tornati invece a crescere in tutta Europa e in parte dell’Asia a ritmo molto sostenuto: crescita favorita, nel vecchio continente, anche da una politica di screening diagnostici di massa che precedentemente non era stata minimamente attuata. Ma mortalità e letalità sono rimaste bassissime, andandosi ad equiparare sostanzialmente a quelle del resto del mondo, che non erano mai ascese ai livelli sopra ricordati, o superandole al ribasso.
Rispetto ai casi censiti, la percentuale di decessi si è attestata ormai mediamente intorno allo 0,3-0,5%. L’età media dei contagiati (sintomatici e non) si è notevolmente abbassata, e i casi più seri vengono trattati farmacologicamente in maniera molto più efficace. Se sono però affidabili (e non c’è ragione di credere il contrario) le stime di molti epidemiologi (da ultimo Micheal Ryan, capo per le emergenze dell’Oms) secondo i quali il numero effettivo dei casi a livello mondiale sarebbe addirittura 20 volte superiore a quello ufficialmente accertato (750 milioni invece di 38), la letalità su tutto il periodo della pandemia andrebbe “retrocessa” allo 0,13%, e se ci si limita al periodo da giugno ad oggi la percentuale scenderebbe ulteriormente, ben al di sotto di un caso su mille.
Con ogni evidenza, il virus si sta diffondendo in maniera crescente e trasversale, ma in una forma sempre più inoffensiva, adattandosi all’uomo. E non esistono più nemmeno nei paesi in primavera più colpiti le condizioni di nuove impennate di casi gravi e vittime.
L’emergenza sanitaria è dunque di fatto finita da molti mesi. Tra i casi diagnosticati, intorno al 95% è asintomatico (portatori sani) o presenta sintomi lievi come quelli di un raffreddore, e solo il 4-5% ha bisogno di sorveglianza e terapia maggiori, e i casi gravi a livello mondiale sono circa lo 0,8% di quelli diagnosticati (da dividere anche questi probabilmente per 20 se si considerano quelli sommersi).
Non sembrano numeri di una calamità di massa, ma di affezioni fisiologicamente connesse all’ordinarietà delle società industrializzate. Il Covid rimane oggi un virus da monitorare, affinché sommandosi ad altri bacilli para-influenzali stagionali in arrivo nell’emisfero boreale non produca un sovraffollamento delle strutture sanitarie. E rimane giustificata l’esigenza di una sorveglianza e protezione attiva sulle fasce di popolazione anziana e pluripatologizzata, che giustifica anche qualche precauzione sociale generale.
Ma certo osservando le cifre attuali non si vede cosa possa mai giustificare il ritorno di restrizioni generalizzate alla vita sociale, di relazione, economica, culturale, artistica, scolastica, universitaria sul modello di quelle attuate in primavere – ammesso e non concesso che all’epoca siano state utili o opportune.
Eppure è proprio in quella direzione che alcuni stati si stanno ancora una volta muovendo, reagendo così alla crescita dei casi individuati senza minimamente distinguere la quantità dalla qualità, né considerare l’incidenza sostanzialmente irrilevante dei casi più seri, ormai non certo superiore a quella delle influenze stagionali: uno studio dell’Università di Edimburgo ha stimato che nel 2019 ci siano stati nel mondo circa 850.000 morti per influenza e per complicazioni respiratorie ad essa associate, una cifra molto vicina al milione di morti finora censiti per il Covid. E, non a caso, a puntare verso chiusure e restrizioni sono i governi nazionali o locali di quei paesi che hanno avuto la massima incidenza di morti in primavera.
Come si spiega razionalmente una tale dinamica? È come se quei paesi – tra cui l’Italia si pone in prima fila – non riuscissero più ad uscire dal clima di terrore che allora li ha attanagliati, nonostante la situazione sanitaria sia ora completamente diversa, infliggendosi così danni non facilmente recuperabili.
Possiamo rispondere affermando che è in atto ormai in quelle società una vera e propria psicosi, che sottrae l’atteggiamento verso il virus ad ogni regola di buon senso. Una psicosi partita sette mesi fa dalle classi politiche, incapaci di gestire una situazione che le avevano prese in contropiede, diffusa alle opinioni pubbliche attraverso campagne mediatiche di martellante allarmismo, e poi ritornata dalle opinioni pubbliche al ceto dirigente nella forma di una richiesta ossessiva di protezione e sicurezza, un attaccamento spasmodico alla “nuda vita” che ha fatto anche dimenticare le difficoltà economiche e le costrizioni alla libertà imposte dai lockdown.
Infine, ora i governi rafforzano ulteriormente questo circolo vizioso producendo una “narrazione” dell’epidemia fondata sul messaggio per cui se le cose migliorano, è merito dei governanti, mentre se peggiorano è colpa dell’irresponsabilità dei cittadini che non rispettano “le regole”: producendo una polarizzazione di aggressività sociale e accuse reciproche tra allarmisti e “negazionisti”.
Ma la psicosi pandemica, la tendenza delle società suddette a chiudersi in se stesse, la loro monocorde sintonizzazione sulla paura del futuro, la rinuncia a vivere e a voltare pagina, non sono sintomi casuali. Rappresentano, invece, caratteristiche tipiche proprio di società anziane, gerontocratiche, infertili, in cui i giovani sono pochi e intimoriti. La spinta vitale in esse si è attenuata fin quasi ad arrestarsi. Il panico da Covid è diventato un sintomo ed al contempo un propellente della loro decadenza.
Eugenio Capozzi
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
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