La nostra folle paura del Covid e la fede degli armeni
Cari amici di Duc in altum, sul dimenticato conflitto tra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno Karabakh sono lieto di proporvi questo contributo di don Riccardo Pane, esperto di Armenia e del Caucaso, al quale diamo il benvenuto nel blog. Da don Riccardo anche una riflessione sulla rocciosa fede degli armeni, a confronto con la nostra Chiesa terrorizzata dalla pandemia e incapace di un’autentica testimonianza cristiana.
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È in atto una guerra quasi del tutto inosservata tra Armenia e Azerbaijan per il possesso di una piccola regione del Caucaso meridionale, chiamata dagli azeri Nagorno Karabakh, e dagli armeni Artsakh, regione storicamente armena, come testimoniano i numerosi monasteri medievali che ne costellano valli e alture, e che venne improvvidamente assegnata da Stalin alla neonata Repubblica sovietica dell’Azerbaijan. Al crollo dell’Urss la ripartizione artificiosa manifestò tutto il proprio potenziale esplosivo: ai pogrom azeri contro la popolazione armena fece seguito la reazione di questi ultimi che si proclamarono Repubblica autonoma; alla reazione armata dell’Azerbaijan, l’Armenia rispose intervenendo in soccorso dei connazionali, accerchiati nella piccola enclave, liberando il Nagorno Karabakh e occupando alcune regioni limitrofe. Uno scontro tra due nazionalismi esasperati: quello armeno, cementato da decenni di persecuzioni e dalla traumatica perdita della grande maggioranza delle proprie terre avite, e quello azero, alimentato da decenni di propaganda turca e dall’ideologia mai estinta del panturanesimo, che scatenò anche il genocidio del 1915, e che puntava a una ricostituzione di un’unità tra i due popoli turcomanni (Turchia e Azerbaijan). Nel 1994 la guerra si concluse con un precario armistizio, destinato inesorabilmente a cedere, come è effettivamente accaduto. Ma la guerra per il possesso del piccolo territorio non è che la punta di un iceberg di interessi sommersi che superano di gran lunga le proporzione dei due piccoli stati caucasici: l’Armenia è una regione strategica irrinunciabile per la Russia; l’Azerbaijan a sua volta è una sorgente irrinunciabile di risorse energetiche per l’Occidente e un obiettivo imprescindibile del rinnovato espansionismo turco.
Al di là delle complesse valutazioni politiche e delle discutibili ragioni degli uni e degli altri, brilla la testimonianza di fede del popolo armeno che, unico nella regione, è riuscito nei secoli a rimanere saldamente cristiano, tra innumerevoli persecuzioni. Prima tra le nazioni ad aver abbracciato la fede cristiana nel 301, l’Armenia è rimasta fedele all’archetipo del santo generale Vardan Mamikonian: «Colui che pensava che tenessimo la nostra fede cristiana a mo’ di vestito, ora sa che non può mutarla, come il colore della pelle, e forse non potrà farlo fino alla fine. Giacché le sue fondamenta sono collocate saldamente sulla roccia inamovibile, non sulla terra, ma su in cielo, dove non cade pioggia, non soffiano venti, non montano inondazioni» (Eliseo, Storia, 5, 11)[1]. Era il 451 e il popolo armeno lottava contro i persiani, determinati a imporre con la forza lo zoroastrianesimo. Ancora oggi i giovanissimi soldati armeni dipingono sui propri elmetti il santo segno della croce, consapevoli che in «hoc signo vinces» e che la vera vittoria non è quella per la difesa della propria terra promessa, ma per la difesa dell’identità cristiana e la salvezza dell’anima. Circolano in rete video che riprendono i sacerdoti, sul fronte, battezzare e comunicare alcuni giovanissimi soldati non ancora iniziati, i quali di lì a poco si immoleranno in nome di un amor di patria che l’occidente non è più capace di comprendere. Impossibile non pensare al 451, quando alla vigilia della battaglia decisiva di Avarayr, la truppa armena celebrò solennemente la veglia pasquale, battezzando i catecumeni: «Il santo prete Łewond concluse glorificando Dio e pronunziando l’amen. Eretto poi l’altare, celebrarono i sacrosanti misteri. Eressero anche il fonte, e se c’erano dei catecumeni in mezzo alla moltitudine dell’esercito, battezzarono per tutta la notte. All’alba parteciparono alla santa Comunione, e così furono illuminati come nella grande solennità di Pasqua. Con grande gioia poi, e con sommo gaudio, tutta la moltitudine dei soldati esclamò e disse: “Questa nostra morte eguagli quella dei giusti, e l’effusione del nostro sangue quella dei santi martiri. Gradisca Dio il nostro volontario sacrificio, e non dia la sua Chiesa in mano ai pagani”» (Eliseo, Storia, 5, 38-39). In realtà non era la Pasqua del calendario, quel giorno, ma era per loro la vigilia della loro personale Pasqua di immolazione e di risurrezione nel martirio. Questa coscienza, questa capacità di leggere gli eventi alla luce della fede riaffiorano ora, come brace mai estinta, dalle ceneri dell’ateismo sovietico. Una coscienza che ha portato recentemente la Chiesa armena a canonizzare tutte le vittime del genocidio del 1915, sulla base della loro immolazione in odium fidei, senza che abnegassero la loro fede, preoccupati più di salvare i tesori dei propri sacri manoscritti che la propria vita.
Davanti all’epidemia di Covid, la nostra gerarchia si è prodigata a preservare la salute fisica dei cristiani più che quella spirituale, emanando dettagliate norme igieniche, e a delegittimare ogni lettura in termini di piaga divina e di castigo, contro tutta la tradizione biblica. Manca del tutto la capacità di leggere gli eventi della storia come riflesso delle realtà soprannaturali. Bisognerebbe rileggere il libro di Giobbe… Ma anche la testimonianza di fede del popolo armeno ha tanto da insegnarci: sotto i bombardamenti, gli abitanti dell’Artsakh si sono rifugiati nelle cripte delle chiese, celebrando i divini misteri, insieme con i loro sacerdoti e con il loro vescovo, i quali non solo non sono scappati, ma non sono nemmeno rimasti nelle retrovie. Al fronte, con tute mimetiche, armati della croce, hanno amministrato i sacramenti, come vere armi della vera guerra: non quella emersa tra Armenia e Azerbaijan, e nemmeno quella sommersa tra Turchia e Russia, ma quella che si gioca nelle fondamenta più profonde dell’iceberg, sul piano soprannaturale, dove il demonio lotta disperatamente per strappare a Cristo quelle anime che la vittoria della Croce ha conquistato.
Don Riccardo Pane
[1]Ełišē, Storia di Vardan e dei martiri armeni, traduzione, introduzione e note a cura di Riccardo Pane, Città Nuova, Roma 2005.