Cari amici di Duc in altum, è uscito il libro di Paolo Gulisano Indagine su Sherlock Holmes (Ares, 232 pagine, 14 euro), studio approfondito, sebbene scritto con taglio divulgativo, dedicato al celeberrimo investigatore e al suo creatore, Arthur Conan Doyle. Qui di seguito la mia intervista all’autore.
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Paolo, perché un’indagine su Sherlock Holmes? C’è qualche mistero da svelare?
È il più grande investigatore di ogni epoca, una figura che resiste all’usura del tempo. Da centotrent’anni continua a svolgere le sue indagini e a risolvere i casi che gli si presentano, con buona pace del suo autore, il medico e scrittore scozzese Arthur Conan Doyle, che ebbe con il suo personaggio un rapporto controverso, ad un certo punto quasi conflittuale, tanto che se ne voleva disperatamente liberare. È il capostipite di un genere letterario, il giallo, che nelle sue espressioni migliori può essere molto più che un genere “minore”, di evasione. Può essere metafora dell’esistenza. La parola “investigare” significa letteralmente, dal latino, “seguire le tracce”. L’investigazione, l’indagine, la ricerca, sono il compito del detective, ma si potrebbe dire che sono il compito di ogni persona che senta nel proprio cuore quella “santa inquietudine” di cui parlò sant’Agostino.
Il romanzo giallo, dunque, non è semplicemente un genere di nicchia, un piacevole ed emozionante intrattenimento, ma una vera e propria metafora della condizione umana, che è fatta per andare instancabilmente alla ricerca della verità. La vita stessa è un enigma. Enigma, o mistero, non nel senso di qualcosa di ignoto, di inconoscibile, di assurdo, ma, contrariamente a come solitamente viene posta la questione, risposta che attende una domanda. Valeva dunque la pena investigare sul più grande investigatore.
Come nasce la tua passione per questo personaggio?
Sherlock Holmes mi ha affascinato fin da quando ero ragazzo. Mi piaceva l’ambientazione vittoriana, la Londra dei misteri, ma anche la grande amicizia di Sherlock con il dottor Watson, che mi ha sempre fatto sentire che questo eccezionale analista di casi, persone e situazioni, non era poi così freddo, quasi una macchina di logica, come apparentemente può sembrare. E proprio la ricerca dell’umano in Sherlock Holmes è stato uno dei criteri che hanno guidato la mia ricerca sul personaggio, così come sul suo autore.
Chi era Arthur Conan Doyle e perché creò Sherlock Holmes?
Doyle era un medico, nato in Scozia nel 1859, in una famiglia della piccola borghesia di Edimburgo. Era di fede cattolica, anche se diventò agnostico dopo aver frequentato uno dei più celebri collegi gesuiti della Gran Bretagna, Stonyhurst. All’università rimase affascinato dalle idee scientiste e dal metodo positivistico. Mentre si preparava a esercitare l’arte medica, sviluppò un grande amore e una grande passione per la letteratura. Cominciò ben presto a scrivere racconti, molti di tipo fantastico, alla Edgar Allan Poe, ma a ispirargli Sherlock Holmes fu l’idea di un investigatore privato che applicava nelle indagini lo stesso metodo diagnostico che all’Università di Edimburgo aveva appreso da un grande maestro della medicina, il professor Joseph Bell. Il primo romanzo, è buffo dirlo, lo iniziò mentre attendeva i clienti nello studio medico che aveva aperto in Inghilterra, dove si era trasferito dopo la laurea, in cerca di lavoro. Il primo romanzo, Uno studio in rosso, ebbe un certo successo, e di lì iniziò la sua nuova carriera di scrittore, che ebbe un tale successo da fargli presto deporre camice e stetoscopio. Le avventure di Sherlock Holmes lo assorbirono per molti anni, con un certo suo fastidio perché ambiva a scrivere anche opere più importanti, come romanzi storici. Ambiva a diventare il nuovo Walter Scott, il più grande scrittore scozzese.
Quanto è importante l’origine scozzese dell’autore?
È importante non solo per i suoi riferimenti letterari, Walter Scott e Robert Louis Stevenson, principalmente, ma anche per decifrare la sua identità forse mai completamente risolta. Era nato a Edimburgo, ma i suoi genitori erano entrambi di origine irlandese, e devoti cattolici. Dalla fede ardente della sua famiglia Arthur finì per allontanarsi, anche se la questione religiosa spesso fa capolino nelle storie di Holmes. Lasciò poi la Scozia per stabilirsi a Londra, nel cuore anche culturale dell’Impero, ma non dimenticò mai la sua terra d’origine, così come la sua religione. Molti personaggi dei racconti sono scozzesi, a cominciare dalla signora Hudson, colei che si prende cura di Holmes e Watson nella loro casa di Baker Street. Tornando a Scott, il sogno di Doyle era di emularlo, e cercò di farlo realizzando interessanti romanzi storici, come La Compagnia Bianca, che tuttavia non ebbero il successo sperato.
“Elementare, Watson” è stato mai scritto?
No! Fa parte del mito sherlockiano sviluppatosi grazie all’enorme successo del personaggio, che attirò presto, già agli inizi del Novecento, le attenzioni del cinema. Il cappello Deer Stalker, la pipa ricurva, e la frase “Elementare, Watson” appartengono alla versione cinematografica delle storie di Conan Doyle. Una frase che purtroppo ha contribuito a dare un’immagine un po’ supponente di Sherlock. All’inizio forse il personaggio lo era, ma col tempo l’investigatore di Baker Street diventò sempre più umano, pur continuando a mantenere capacità professionali uniche e straordinarie. Questo fu fatto notare a Doyle dall’amico monsignor Ronald Knox, un sacerdote valente giallista, e amico anche di Chesterton.
Fosse vivo oggi, Sherlock Holmes riuscirebbe a venire a capo dei delitti usando lo stesso metodo di allora?
Oggi molte cose sono cambiate nelle tecniche investigative: ci sono i test del DNA, ci sono le intercettazioni telefoniche per carpire le informazioni, ci sono, anche in ambito poliziesco, i protocolli e le procedure in cui ingabbiare talenti e capacità. Ma l’intuito, la capacità di osservazione, l’arte della deduzione, che sono le caratteristiche di Sherlock, non potranno mai essere sostituite o passare in subordine. Credo che oggi Sherlock potrebbe arrivare a capo dei misteri più difficili da risolvere.
Guardando al genere poliziesco oggi, chi potrebbe essere l’erede di Conan Doyle?
Il genere giallo è ricchissimo di autori. Negli ultimi anni vanno per la maggiore gli scandinavi, poi ci sono gli italiani, il cui giallo scivola però molto spesso nel noir. Nell’ambito del giallo classico, c’è a mio avviso un’autrice di grande talento, che è l’inglese Ann Cleeves, autrice di diverse serie, tra cui la originalissima Shetland, che vede operare nel magnifico scenario dell’arcipelago a nord della Scozia l’ispettore Jimmy Perez, dotato di grandissima sensibilità e umanità, e la sua squadra di investigatori posti in uno dei luoghi più remoti d’Europa. Ma il confronto col mitico Sherlock è sempre molto difficile!
Che cosa rappresenta, o chi rappresenta, Moriarty, l’arcinemico di Sherlock Holmes?
Moriarty rappresenta una inquietante manifestazione del Mysterium iniquitatis. Conan Doyle sembra esprimere una seria preoccupazione per un tipo di malvagità che non è quella dei comuni delinquenti, dei rapinatori, degli uxoricidi per gelosia, dei violenti dei bassifondi londinesi. C’è un altro tipo di malvagità, che alberga in personaggi come Moriarty, geniale professore di matematica. Un male gelido, calcolato, non occasionale. La lunga, durissima sfida di Sherlock contro Moriarty ci mostra tutto il coraggio di questo investigatore, solitario, moderno cavaliere errante che fa di tutto per fermare questo tipo di crimine, il più subdolo, il più pericoloso.
A cura di Aldo Maria Valli
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