L’ossessione del distanziamento il contagio più pericoloso
Mentre mi aggiro nel negozio sotto casa, assisto a questa scena. Un’anziana signora, che si avvia verso la cassa, si avvicina a un signore che sta a sua volta pagando.
“Ma che fa?” dice il signore voltandosi.
“Mi metto in fila” risponde la signora.
“E mi deve stare così vicino?” replica il signore.
“Mah… non mi sembra… mi scusi…” balbetta la signora, sorpresa.
“Mantenga il metro di distanza, se non le dispiace” intima l’uomo sventolando la mano e mostrando tutto il suo disappunto.
E la signora, mortificata, fa un passo indietro.
Episodio banale, direte. Forse. Però mi succede sempre più spesso di assistere a scene del genere.
Giorni fa, in una grande supermercato, quando mi sono rivolto a un addetto per chiedergli dove fosse un certo prodotto, l’uomo, un giovane sui trent’anni, prima di rispondermi ha fatto un passo indietro. E poco dopo, mentre stavo in fila in attesa di arrivare alle casse, sono stato testimone di un battibecco fra due clienti, perché l’uno accusava l’altro di non mantenere la distanza sociale.
Perfino in chiesa è divampata una discussione, davanti ai mei occhi, quando una signora ha accusato una ragazza di essersi seduta sulla sua stessa panca senza prestare attenzione al distanziamento.
Fra tutti gli effetti a lungo termine che il Covid ci lascerà, e con i quali dovremo fare i conti anche se e quando, voglia il Cielo, il virus si sarà tolto di mezzo, mi sa che questa faccenda della distanza sociale sarà tra le più evidenti. E pesanti.
Non che prima vivessimo esattamente in un mondo pieno di cordialità, disponibilità e fiducia reciproca. Però, a meno che tu non ti aggirassi armato di pistola o di clava, in genere non succedeva che mentre ti accostavi a un tuo simile quello per prima cosa arretrasse di un passo e ti guardasse con malcelato orrore.
Oggi, invece, per i nostri simili siamo tutti quanti potenziali untori. Anche se indossi la mascherina d’ordinanza, chi ti sta accanto non vede in te un suo simile, ma un nemico. Siamo alla versione riveduta e corretta, in peggio, del vecchio homo homini lupus.
Può darsi che le mie osservazioni siano segnate dal fatto che vivo in una metropoli, dove c’è maggiore possibilità di trovarsi a contatto con altre persone. Comunque, temo che la strada sia segnata.
Gli unici esseri viventi con i quali intratterremo un rapporto ravvicinato saranno i nostri animali domestici. Parleremo sempre di più con cani, gatti, pappagallini e tartarughine, e sempre meno con i rappresentanti della nostra stessa specie. E magari, per garantire il distanziamento sociale, ci affideremo ad appositi robot, pronti a intervenire, con le buone o le cattive, ogni qualvolta infrangeremo le norme dettate per il contenimento delle epidemie.
Il distanziamento sta prendendo piede a ogni livello. E da molti sintomi sembra di poter concludere che sia in corso soprattutto una presa di distanze dal buon senso.
Artefice primo di tale distanziamento è il terrore, diffuso a piene mani dai mass media. E così siamo obnubilati dal contagio emotivo, contro il quale non c’è vaccino che tenga.
“Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. Parola di Alessandro Manzoni, che di epidemie si intendeva. Ma rispetto alle vicende narrate dal vecchio don Lisander la situazione sembra di gran lunga peggiore. Il buon senso non c’è, o ce n’è pochissimo. E di giorno in giorno rischia l’estinzione. Al suo posto, ecco l’ossessione del distanziamento e l’illusione che lì ci sia la salvezza.
Mentre i drappi appesi alle finestre, con la scritta “Andrà tutto bene”, sono sempre più sbrindellati e sbiaditi, pare proprio che abbiano ragione quei buontemponi del sito dedicato ai luoghi comuni al contrario, quando dicono che siamo tutti su barche diverse.
A.M.V.
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Una riflessione sull’uso politico e sociale della pandemia. Ovvero, ecco a voi il dispotismo statalista, condiviso e terapeutico che minaccia democrazia e libertà.
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