Le scivolose parole di Francesco sulla proprietà privata
Cari amici di Duc in altum, vi propongo il mio più recente intervento per la rubrica La trave e la pagliuzza in Radio Roma Libera. Si parla delle affermazioni di papa Francesco sulla proprietà privata.
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“Costruiamo la nuova giustizia sociale ammettendo che la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto e intoccabile il diritto alla proprietà privata e ha sottolineato sempre la funzione sociale di ciascuna delle sue forme. Il diritto di proprietà è un diritto naturale secondario derivante dal diritto che hanno tutti, nato dalla destinazione universale dei beni creati. Non c’è giustizia sociale che possa cementarsi sull’iniquità, che comporti la concentrazione della ricchezza”.
Così qualche giorno fa, nel videomessaggio per i giudici membri dei comitati per i diritti sociali di Africa e Asia, Francesco si è espresso circa la proprietà privata. Parole e argomentazioni che lasciano spazio all’equivoco, tanto è vero che quasi tutti i giornali hanno titolato: “Papa Francesco: la proprietà privata non è un diritto intoccabile”.
Che la dottrina sociale della Chiesa non abbia mai riconosciuto la proprietà privata come un valore assoluto è fuori discussione. Ma Francesco lo dice in un modo per cui sembra quasi che ci sia un rapporto diretto e necessario tra la proprietà privata, la concentrazione della ricchezza e l’iniquità.
Leggiamo invece nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, nel capitolo intitolato Destinazione universale dei beni e proprietà privata: “Mediante il lavoro, l’uomo, usando la sua intelligenza, riesce a dominare la terra e a farne la sua degna dimora” Ed è proprio “qui l’origine della proprietà individuale”. Infatti, “la proprietà privata e le altre forme di possesso privato dei beni assicurano ad ognuno lo spazio effettivamente necessario per l’autonomia personale e familiare, e devono essere considerati come un prolungamento della libertà umana”.
Non solo. Il Compendio ricorda che la proprietà privata, condizione della libertà civile, è anche fonte di responsabilità e di ordine sociale: “La proprietà privata è elemento essenziale di una politica economica autenticamente sociale e democratica ed è garanzia di un retto ordine sociale”. Non si tratta, dunque, di eliminare la proprietà privata o di ridimensionarla. Semmai, al contrario, si tratta di estendere il senso di responsabilità, che trova nella proprietà privata un fondamento, “così che tutti diventino, almeno in qualche misura, proprietari”, contro ogni forma di collettivismo e quindi di deresponsabilizzazione.
Quando il papa esorta a costruire “la nuova giustizia sociale ammettendo che la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto e intoccabile il diritto alla proprietà privata”, cita quasi alla lettera il Compendio, secondo il quale “il diritto della proprietà privata” è “subordinato al diritto dell’uso comune, alla destinazione universale dei beni”. Ma il Compendio aggiunge che non c’è opposizione tra i due diritti. Non è che la proprietà privata sia nemica della destinazione universale dei beni. La Chiesa insegna che la proprietà privata non è un fine, ma un mezzo, e come tale va regolamentato, ma va anche garantito.
Già nell’enciclica Rerum novarum del 1891, considerato il documento che ha dato il via alla Dottrina sociale della Chiesa, Leone XIII avvertiva che il diritto alla proprietà privata non può mai essere inteso in senso assoluto, tuttavia sottolineava che, “affrancando l’uomo dalla precarietà, il diritto di proprietà è la condizione di una libertà reale”. Una linea che la Chiesa, pur in presenza di profondi e a tratti tumultuosi cambiamenti sociali, ha mantenuto inalterata. Di qui la denuncia sia del comunismo sia degli eccessi del liberalismo, ma senza mai intaccare o indebolire il diritto alla proprietà privata. Perché senza diritto alla proprietà privata non c’è libertà concreta e senza libertà non c’è dignità.
Pio XII nel radiomessaggio per la Pentecoste del 1941, a mezzo secolo dalla Rerum novarum, ricordò che compito della Chiesa non è proporre sistemi sociali ed economici, ma “giudicare se le basi di un dato ordinamento sociale siano in accordo con l’ordine immutabile, che Dio creatore e redentore ha manifestato per mezzo del diritto naturale e della rivelazione”.
Ecco perché, prima che si approdasse all’Economy of Francesco, non c’è mai stata un’economia di Pio XI, Pio XII o di qualunque altro papa. Ciò che la Chiesa ha a cuore è indicare alla coscienza cristiana errori e pericoli di concezioni sbagliate, perché sganciate dalla legge divina. Di qui la condanna sia del socialismo materialista sia del liberalismo selvaggio, perché entrambi antiumani.
La chiave è l’equilibrio. “Senza dubbio – insegnava Pio XII – l’ordine naturale, derivante da Dio, richiede anche la proprietà privata e il libero reciproco commercio dei beni con scambi e donazioni, come pure la funzione regolatrice del potere pubblico su entrambi questi istituti”.
Nella Centesimus annus (che si intitola così perché pubblicata nel 1991, a cento anni dalla Rerum novarum), Giovanni Paolo II, che sperimentò di persona il comunismo, mise in guardia dagli eccessi di un capitalismo attento solo al profitto, ma non per questo evitò di sottolineare gli aspetti positivi dell’economia di mercato, che ha nella proprietà privata e nella libertà di impresa i suoi fondamenti.
E Benedetto XVI, nella Caritas in veritate del 2009, nel contesto di una grave crisi economica e finanziaria, ribadì la linea dell’equilibrio, mettendo in guardia contro una finanza slegata dall’economia reale e invitando a rivedere gli stili di vita, ma senza mai cadere nel pauperismo. Per papa Ratzinger, l’economia, la finanza, il mercato, la globalizzazione e le tecniche che l’uomo sviluppa nel corso del tempo non sono cattive in se stesse. Diventano tanto più cattive quanto più dimenticano la dimensione etica.
Alla luce del costante insegnamento della Chiesa, le parole di Francesco sulla proprietà privata, suonando come un’implicita accusa, appaiono dunque scivolose. Sembrano dimenticare ciò che la Chiesa ha sempre insegnato: poiché non c’è libertà reale senza proprietà privata, quest’ultima va certamente regolamentata, ma non intaccata.
Francesco, con la sua larvata accusa alla proprietà privata, sceglie un obiettivo sbagliato. Ammesso e non concesso che ci possa essere un’Economy of Francesco, essa non dovrebbe prendersela con la proprietà privata. Alla luce della dottrina sociale della Chiesa dovrebbe invece puntare, per esempio, sulla crisi demografica, sulla sempre risorgente invadenza dello Stato, su livelli di tassazione che mortificano la libertà d’intrapresa senza offrire in cambio un welfare degno di questo nome. Dovrebbe aiutare a smascherare il finto welfare che alimenta le burocrazie senza aiutare i poveri. Dovrebbe mettere in guardia dall’assistenzialismo e riconoscere che la possibilità di essere caritatevoli cresce con l’aumentare della ricchezza, mentre l’impoverimento non giova a nessuno.
Nella parabola del buon samaritano la parte che mi colpisce di più è quella finale, quando il samaritano chiede all’albergatore di prendersi cura del viandante: “Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno”. In queste parole c’è un’evidente dimensione economica. Il samaritano non fa tanti bei discorsi sull’assistenza, ma mette mano al portafoglio. Non si appella alla burocrazia assistenziale, ma estrae due denari. Il samaritano può essere tanto buono e caritatevole, e può dare efficacia alla sua scelta morale, perché ha disponibilità economica. Non dovremmo dimenticarlo.
Aldo Maria Valli