Cari amici di Duc in altum, vi propongo il mio più recente contributo per la rubrica La trave e la pagliuzza, in Radio Roma Libera.
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Anche questa volta, come sempre, il diluvio di auguri tra la fine dell’anno vecchio e l’inizio del nuovo mi ha lasciato un senso di insoddisfazione e anche un po’ di fastidio. Trovo generico, ma anche vacuo, augurarsi “buon anno”. Che significa “buon anno”? Forse sarebbe meglio dire “ti auguro un anno come tu lo desideri”, ma per noi cristiani non funziona nemmeno questa formula. Per il credente l’unico augurio sensato è “ti auguro un anno secondo la volontà del Signore” o qualcosa di simile. Ciò che conta è che qualunque cosa avverrà sia in linea con i disegni del Padre e non con quelli del Maligno, il che implica la disponibilità nei confronti di Dio, il lasciarsi guidare e abbracciare da lui. Mi rendo conto che sintetizzare tutto questo in una formula augurale non è semplice, ma forse basterebbe dire “santo anno”. Ecco, “santo anno”, al posto di “buon anno”, suona come molto più cattolico. Purtroppo, però, noi cattolici spesso ci sentiamo in imbarazzo quando si tratta di manifestare le nostre convinzioni di fede, e così ripieghiamo sulle formule più comuni, anche se nel nostro intimo avvertiamo che non ci appartengono.
In una prospettiva di fede, qualunque cosa succeda, il tempo e lo spazio sono sempre provvidenziali. Se al primo posto mettiamo Dio, la sua legge e la sua volontà, e non le nostre pretese di autonomia e i nostri capricci, lo spazio e il tempo sono la ribalta – mi sia permessa questa espressione – sulla quale va in scena la redenzione.
A questo proposito, se mai in questi giorni ci è capitato di mandare un pensiero non proprio carino al 2020, segnalo una riflessione di Pete Baklinski – l’ho letta in LifeSiteNews – nella quale l’autore canadese fa notare che, dopo tutto, se duemila anni fa per una certa coppia di genitori le cose andarono in un certo modo, lo si deve all’interferenza del governo nei loro piani
Quella giovane coppia certamente avrebbe preferito far nascere il bambino a Nazareth, in Galilea, anziché mettersi in cammino (sono 175 chilometri) verso Betlemme, in Giudea, con tutti i problemi e le incognite del caso. Ma c’era la faccenda del censimento (ecco l’interferenza) e così la storia prese tutta un’altra piega, compresa la mancanza dell’alloggio, il rifugio nella stalla, la sistemazione del neonato nella mangiatoia, la presenza dei pastori e via elencando.
Anche in quel tempo, come oggi con il Covid, gli ordini delle autorità furono netti e non lasciarono margini. Da un punto di vista strettamente umano, quel primo Natale al freddo e al gelo fu piuttosto disastroso, eppure fu proprio così che Dio lo volle, e la sacra famiglia si affidò ai suoi disegni.
In questi nostri tempi di blocchi governativi, restrizioni alle riunioni e numerosi altri protocolli dovuti al coronavirus, non è male riflettere sul fatto che il primo Natale fu come fu proprio a causa di certe normative allora vigenti, alle quali Giuseppe e Maria dovettero piegarsi. Significa allora che dobbiamo accettare tutto passivamente, evitando di esercitare un retto giudizio? No, il buon Dio non ci chiede questo. Non ci chiede di evitare di mettere in funzione il cervello. Anzi, ci vuole ben svegli e giudicanti. Però nello stesso tempo ci chiede, in mezzo alle vicende del mondo, di prestare attenzione ai segni divini, per riconoscerli e orientare le nostre vite al vero, al buono e al bello.
Molte volte nel suo magistero Benedetto XVI ci ha ricordato che essere cristiani significa mantenersi disponibili a riconoscere i segni divini e che il cuore umano inaridisce quando perde la capacità di mettersi in ascolto di Dio. L’esempio è proprio quello di Maria e Giuseppe, così come di una schiera infinita di santi. Dunque, santo anno a tutti!
A.M.V.