Il dilemma del successore di Francesco: continuare a essere il cappellano dell’Onu o tornare a confermare i fratelli nella fede?
Cari amici di Duc in altum, il professor Rubén Peretó Rivas ci ha inviato da Buenos Aires un nuovo contributo. Un’analisi del linguaggio e dei contenuti che caratterizzano la predicazione di Francesco, ma con l’occhio rivolto al successore.
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Papa Francesco si dedica a coniare espressioni particolarmente potenti che propone nei suoi discorsi e poi sono ripetuti dalla stampa nei titoloni sui giornali. Sono i cosiddetti bergoglismi e si caratterizzano per avere un sapore sinesteticamente sgradevole, come “odore di pecora”, “cetrioli sottaceto”, “contenitore esistenziale”, eccetera, cercando così di provocare reazioni emotive di aderenza al messaggio. Ultimamente sono apparse anche alcune espressioni che, come i bergoglismi, cercano di riflettere alcuni atteggiamenti che lo stesso papa e la Chiesa hanno assunto negli ultimi anni. Uno di essi, apparso nelle scorse settimane, si riferisce a Bergoglio come al “cappellano delle Nazioni Unite”. In questo caso non si tratta del riferimento a un’immagine spiacevole e nemmeno del richiamo a sentimenti. Si tratta piuttosto di una conclusione razionale, emersa dall’analisi dei fatti.
Nella pratica, la Chiesa guidata da papa Francesco, assecondata dalla maggioranza dei vescovi, ha adottato l’agenda delle Nazioni Unite, ad esempio incoraggiando l’immigrazione e la conseguente censura di paesi e governi che cercano di regolamentarla o prevenirla. Insiste poi sul cambiamento climatico che richiederebbe cure straordinarie per il pianeta, definito negli ambienti pontifici “madre terra”. Allo stesso modo, la “fratellanza universale”, obiettivo ricercato per secoli da società agnostiche e particolarmente anticattoliche come la massoneria, è ora apertamente proclamata dallo stesso Vicario di Cristo, per esempio nella dichiarazione di Abu Dhabi del 2019 o o nel suo video del mese di gennaio 2021.
Nel 2019, e come risultato della pandemia Covid, l’agenda dell’Organizzazione mondiale della sanità ha imposto una serie di norme di prevenzione che hanno implicato gravi limitazioni alle libertà fondamentali, tra le quali la regolamentazione o persino il divieto del culto pubblico, una situazione che dura ormai da quasi un anno e che, secondo alcuni scienziati che si comportano come chiaroveggenti del mondo contemporaneo, durerà fino al 2024. I vescovi, con pochissime eccezioni, si sono affrettati a seguire questa agenda restrittiva senza alcun tipo di discussione o resistenza e, addirittura, hanno fatto a gara per adottare misure igieniche eccessive, arrivando a estremi inverosimili e in alcuni casi ridicoli. Notevole il loro sforzo di essere politicamente corretti e la dimostrazione di responsabilità nell’obbedire agli ordini delle autorità civili, anche se tutto ciò ha significato abbandonare spiritualmente i loro fedeli, privandoli dei sacramenti per mesi.
Bastano questi esempi per dimostrare che non è esagerato o fantasioso considerare che papa Francesco occupa una sorta di cappellania dell’Onu come il massimo leader religioso che benedice e legittima le iniziative globaliste di quell’organismo.
Questo atteggiamento pontificio, parallelamente, pone la Chiesa cattolica come un ulteriore satellite di una sorta di organizzazione planetaria, in cui ogni membro ha precise funzioni da svolgere per facilitare il nuovo governo globale.
Di fronte a questa brusca svolta degli eventi, una delle domande sul futuro che possiamo esaminare ha a che fare con quello che accadrà con il prossimo pontificato. Sappiamo che il nuovo ruolo che la Chiesa sta assumendo nel campo del governo mondiale è decisione di papa Francesco poiché nei precedenti pontificati, come quello di Benedetto XVI o quello di Giovanni Paolo II, il Vaticano è sempre stato voce critica e, in certa misura, persino temuta. Il successore di Bergoglio avrà dunque nelle sue mani la decisione di proseguire o meno questa politica di legittimazione delle azioni globaliste, e di preservare o rifiutare la “cappellania” dell’Onu
Gli sarà facile continuare la politica bergogliana. In quasi otto anni il pontefice argentino si è premurato di stabilire una struttura di governo fedele ai suoi ideali mondialisti. Una maggioranza importante del collegio cardinalizio è stata creata da Francesco a sua immagine e somiglianza. In occasione dei concistori è sempre prevalso il capriccio nella distribuzione delle berrette rosse e, sebbene questo atteggiamento non sia nuovo nella Chiesa, quello che osserviamo in questo caso è che i personaggi sono scelti o perché perfettamente allineati alla politica bergogliana o perché sono nullità che difficilmente opporranno resistenza o faranno domande agli ordini che scendono dai Sacri Palazzi, chiunque lì si sieda e, detto per inciso, scriveranno sulle schede del prossimo conclave il nome di chi gli verrà indicato. Anche l’episcopato mondiale, d’altro canto, sebbene meno impegnato, è stato scelto secondo il criterio pontificio che esige “pastori con odore di pecora”. E questo significa che sono vescovi eminentemente pastoralisti (che non è la stessa cosa di pastori), con poca formazione e completamente votati all’azione pastorale che, secondo loro, consiste nel trasformare le strutture sociali secondo lo spirito del Vangelo. La dimensione spirituale della Chiesa è relegata a un secondo o terzo piano, e in molti casi diventa un elemento decorativo di scarsa rilevanza.
Se il prossimo papa volesse, invece, tornare sul cammino dei suoi predecessori e assumere pienamente la carica che gli è stata affidata, e cioè “confermare i suoi fratelli nella fede”, cosa dovrebbe fare davanti alla terra desolata in cui troverà trasformata la Chiesa cattolica?
Si tratta, a mio avviso, di abbracciare con decisione il carattere spirituale ed eminentemente contemplativo che è proprio della Sposa di Cristo, allontanandosi dagli impegni temporali ed esercitando il magistero nel tempo e fuori dal tempo. Questa è stata l’opzione scelta da papa Benedetto XVI, e basti un solo esempio per dimostrarlo: buona parte della sua catechesi del mercoledì riguardò i Padri della Chiesa, maestri della nostra fede nei primi secoli. Non si soffermò con paroloni sui migranti, lo scioglimento dei ghiacciai o la deforestazione del pianeta.
Nei media ecclesiastici argentini viene raccontato un aneddoto. Era la metà di maggio 2007 e, in uno dei corridoi dell’enorme Santuario di Aparecida (Brasile), dove si stava svolgendo l’assemblea dei vescovi dell’America Latina, un sacerdote argentino avrebbe rinfacciato bruscamente quanto segue al cardinale Zenon Grocholewski, della Congregazione per l’educazione cattolica: “Vediamo quando riusciamo a fare in modo che i seminari formino sacerdoti secolari, sacerdoti inseriti nel mondo e smettiamo di scommettere su una formazione monastica fittizia”. Quel sacerdote sarebbe l’attuale arcivescovo di La Plata, monsignor Víctor Fernández detto Tucho, uno dei ghost writers di papa Francesco. E negli ambienti ecclesiastici è nota la determinazione di questo potente prelato nel privilegiare l’azione pastorale al posto della preghiera. Il principio secolare enunciato da san Tommaso d’Aquino et contemplata aliis tradere (“contemplare, e donare agli altri il frutto della propria contemplazione”) non sembra più valido in questi tempi bergogliani. Per monsignor Fernández, ispiratore del pensiero pontificio, una spiritualità basata su questi due poli complementari – preghiera e apostolato – risponde a un comportamento schizoide. Afferma infatti che coloro che pretendono come prima cosa di pregare e poi di dare agli altri ciò che hanno ricevuto nella preghiera, presentano caratteristiche simili a quelle di una persona schizofrenica o bipolare. Il buon missionario fa della missione stessa la sua preghiera. Non è necessario, quindi, dedicare ogni giorno un po’ di tempo alla preghiera o stare da solo con Gesù; l’importante è fare cose apostoliche. In altre parole, ciò che conta è l’attività, perché l’attività stessa è preghiera.
Questo è uno dei punti nodali del pensiero di Bergoglio, spina dorsale del suo pontificato, e uno dei primi che il suo successore dovrebbe fare a pezzi. Il papa è il custode e il maestro della fede. La sua missione non è un’attività frenetica, omelie quotidiane, viaggi mensili, né produzione quotidiana di discorsi, lettere ed esortazioni. Molto meglio, e più efficacemente, si insegna la fede celebrando la liturgia con dignità e solennità, parlando al cuore e all’intelligenza dei fedeli – e non alle orecchie interessate dei nemici della fede – e ricordandoci più e più volte in mezzo a questo mondo materialista che la nostra speranza è nel regno che verrà e non in un mondo senza emissioni di anidride carbonica.
In conclusione, il prossimo pontificato dovrà essere radicalmente opposto alla già fallita esperienza bergogliana. Dovrà essere un pontificato cattolico, incentrato sul consolidamento della fede dei battezzati, ignorando le agende promosse dai governi nazionali e transnazionali.
Rubén Peretó Rivas
Traduzione di Valentina Lazzari
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Aldo Maria Valli, Semel in anno
(Cronache dal futuro, Interviste pazze, Cattolici su Marte)
“Semel in anno licet insanire” dicevano gli antichi. “Una volta all’anno è lecito impazzire”. Quando le cose si mettono male, una risata può essere terapeutica. E può anche servire per dire la verità a fronte di un dispotismo soffocante. Vecchia storia: quando il conformismo dilaga, solo il giullare, attraverso la satira, riesce a proporre squarci di verità. E allora “insanire” può diventare addirittura dovere civile, se vogliamo usare parole grosse. Come diceva Victor Hugo, “è dall’ironia che comincia la libertà”. L’avvertenza è quella solita, nota ai frequentatori del mio blog Duc in altum: i contributi qui raccolti contengono ironia e sarcasmo. In caso di accertata allergia all’ironia e al sarcasmo, astenersi dalla lettura. Se siete allergici e non vi astenete, peggio per voi.
Semel in anno lo trovi qui