Cari amici di Duc in altum, ricevo, e volentieri condivido, un importante contributo di José Antonio Ureta dedicato a Spiritus Domini, il motu proprio con il quale Francesco ha espressamente aperto alle donne l’accesso ai ministeri del lettorato e dell’accolitato. Un’interpretazione realistica di tale decisione, scrive Ureta, “porta alla conclusione che è stato compiuto un passo significativo verso la totale eclissi del sacerdozio cattolico e del carattere gerarchico della Chiesa, avvicinandolo ancora di più alla falsa ecclesiologia protestante”.
***
Spiritus Domini nel contesto dell’avversione al “clericalismo” di papa Francesco
Con il motu proprio Spiritus Domini papa Francesco ha modificato il primo paragrafo del canone 230 del Codice di diritto canonico, aprendo l’accesso alle donne ai ministeri di lettorato e accolitato, finora istituzionalmente riservati agli uomini. In realtà, a titolo di deroga, le donne sono arrivate massicciamente all’altare molti decenni fa.
Alcune femministe cattoliche hanno deplorato il fatto come un sotterfugio per non dover accettare le loro richieste di diaconato femminile, come Lucetta Scaraffia, ex direttrice del supplemento mensile femminile dell’Osservatore Romano, secondo la quale “nessuna donna può essere felice con questo motu proprio, è una vera delusione”. Oppure Paola Cavallari, membro del Coordinamento teologhe italiane, per la quale il motu proprio sembra “una iniziativa ispirata al detto del Principe di Salina nel romanzo Il Gattopardo: cambiare qualcosa perché tutto rimanga uguale”.
Altre femministe cattoliche, al contrario, hanno visto nel documento “un piccolo cambiamento, con grandi conseguenze ecclesiali”, come Silvia Martínez Cano, professoressa alla Pontificia Università di Comillas, in un articolo sul portale spagnolo Religión Digital: “Questo cambiamento è importante, soprattutto per quello che non è detto nel motu proprio, ma vi è implicito, perché riguarda il terzo comma del canone [n. 230]: che le donne possano aiutare il ministro nelle sue funzioni, come ad es. esercitare il ministero della parola, presiedere alcune liturgie, amministrare il battesimo e la comunione senza che qualche fedele cambi fila per evitare di riceverla da una donna”. Lo stesso entusiasmo troviamo da parte di Isabelle Roy, membro delle Comunità di vita cristiana, legate ai gesuiti: “La decisione del papa apre una breccia, pone una pietra miliare per altre possibilità. Negli ospedali, ai funerali, insomma, dove non c’è sacerdote, già i laici commentano il Vangelo. Perché non riconoscerlo in modo istituzionale?”.
Dal canto suo, il teologo Andrea Grillo, professore di teologia sacramentale presso l’Ateneo Pontificio Sant’Anselmo a Roma, ritiene “storica” la decisione papale. Andando oltre la mera questione del diaconato femminile, messa a fuoco dalla stampa, Grillo sottolinea che l’ultimo Concilio ha permesso di “ripensare ‘l’Ordine sacro’”, in modo che “la corresponsabilità dei ‘non chierici’ nella vita della Chiesa appare ora chiaramente delineata” e “assunta con decisione”. “Se la categoria di ‘chierico’ rimane legata, per ora integralmente, al sesso maschile – non escludendo un ulteriore approfondimento sul diaconato – d’ora in poi i corresponsabili non chierici sono concepiti senza differenza di genere” e la Chiesa si mostra come “comunità sacerdotale”.
Il fatto che Francesco abbia scelto la festa del Battesimo del Signore per firmare Spiritus Domini e il motu proprio non può essere visto come una semplice coincidenza. Da un lato, si legge nel documento, “si è giunti in questi ultimi anni ad uno sviluppo dottrinale che ha messo in luce come determinati ministeri istituiti dalla Chiesa hanno per fondamento la comune condizione di battezzato e il sacerdozio regale ricevuto nel Sacramento del Battesimo; essi sono essenzialmente distinti dal ministero ordinato che si riceve con il Sacramento dell’Ordine”. Dall’altro lato il documento afferma: “Questi carismi, chiamati ministeri in quanto sono pubblicamente riconosciuti e istituiti dalla Chiesa, sono messi a disposizione della comunità e della sua missione in forma stabile”.
“Nell’orizzonte di rinnovamento tracciato dal Concilio Vaticano II, si sente sempre più l’urgenza oggi di riscoprire la corresponsabilità di tutti i battezzati nella Chiesa, e in particolar modo la missione del laicato”, spiega il sommo pontefice nella lettera di accompagnamento a Spiritus Domini, indirizzata al prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.
Un’interpretazione benigna di questo “sviluppo dottrinale” porterebbe a ripetere il commento del cardinale Giovanni Colombo sulla Gaudium et spes: “Questo testo ha tutte le parole giuste; sono gli accenti che sono sbagliati”. Infatti, si omette che la struttura della Chiesa, in quanto società visibile, si basa principalmente sul sacramento dell’Ordine, che trasmette la missione e il potere di santificare, insegnare e governare dato da Gesù agli apostoli.
Un’interpretazione più realistica di tale “sviluppo” porta alla conclusione che è stato compiuto un passo significativo verso la totale eclissi del sacerdozio cattolico e del carattere gerarchico della Chiesa, avvicinandolo ancora di più alla falsa ecclesiologia protestante. Questo vero trasbordo dottrinale che rischia di sbocciare nell’eresia ecclesiologica è iniziato diversi decenni fa e si basava su una manipolazione semantica del concetto di “ministero”.
Prima del Vaticano II, la Chiesa riservava questa parola esclusivamente al cosiddetto “sacro ministero”, cioè a quella “funzione di istituzione divina mediante la quale si coopera con il sacerdozio di Cristo nella mediazione tra il mondo e Dio”, come spiega padre J. A. Fuentes nella rispettiva voce del Diccionario General de Derecho Canónico. Ad esempio, nel Codice di diritto canonico del 1917, le parole “ministro” e “ministero” erano usate esclusivamente in relazione ai sacramenti o alle sacre funzioni della liturgia.
È vero che, nella sua origine latina, la parola “ministro” significa “servitore”, come in Mt 20,28: “Filius hominis non venit ministrari sed ministrare et dare anima suam redemptionem pro multis” (“il Figlio dell’uomo, non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”). Ma la Chiesa ha voluto riservarla al suo servizio fondamentale, la divina liturgia, e a coloro che, ricevuto il sacramento dell’Ordine, salgono all’altare e offrono il sacrificio eucaristico a Dio, oltre a “ministrare” ordinariamente gli altri sacramenti ai fedeli.
Infatti, Nostro Signore Gesù Cristo ha redento l’umanità attraverso un triplice ministero – sacerdotale, dottrinale e pastorale – e, al fine di prolungare la sua opera redentrice nel tempo, ha dotato la società soprannaturale e visibile da Lui fondata – la Chiesa – di una gerarchia, alla quale ha trasmesso, nella persona degli apostoli e dei loro successori, il suo triplice ministero e i rispettivi poteri.
Quindi, nella Chiesa, c’è una chiara distinzione tra i suoi membri, come spiegato dal canone 207 dell’attuale Codice di diritto canonico: “§ l. Per istituzione divina vi sono nella Chiesa tra i fedeli i ministri sacri, che nel diritto sono chiamati anche chierici; gli altri fedeli poi sono chiamati anche laici” (e nel paragrafo seguente si spiega che i religiosi possono appartenere all’uno o all’altro di questi due gruppi di fedeli).
Il noto professore milanese Vincenzo del Giudice riassume così la differenza tra clero e laici: “In essa [la Chiesa] ci sono i superiori gerarchici e i soggetti; c’è un elemento attivo e uno passivo [riguardo all’amministrazione e alla ricezione dei sacramenti], persone che governano (ecclesia dominans) e persone che obbediscono (ecclesia obediens), persone che insegnano (ecclesia docens) e altre che imparano (ecclesia discens). Insomma, c’è una classe ‘eletta’ (clerus) che ha il compito di insegnare e governare spiritualmente i fideles, e di amministrare i sacramenti, e d’altra parte, la classe dei fideles, considerata indistintamente (cioè entrambi i laici come quelli che appartengono al clero, cioè tutti coloro che formano il ‘Popolo di Dio’), i quali vengono istruiti, governati e santificati grazie all’attività sopra spiegata (c.107 e 948 e Lumen gentium, n. 2829)”.
Fu contro questa struttura gerarchica dell’istituzione divina che si levò la pseudo-riforma protestante, in nome del triplice slogan “sola fides, sola Scriptura, sola gratia” e dell’affermazione che Cristo è l’unico sommo sacerdote del Nuovo Testamento, per cui i frutti della Redenzione vengono applicati direttamente al credente senza l’intermediazione della Chiesa e dei suoi ministri.
La confutazione dell’eresia protestante fu l’oggetto principale del Concilio di Trento, che dichiarò solennemente: “Se qualcuno dirà che nel nuovo Testamento non vi è un sacerdozio visibile ed esteriore, o che non vi è alcun potere di consacrare e di offrire il vero corpo e sangue del Signore, di rimettere o di ritenere i peccati, ma il solo ufficio e il nudo ministero di predicare il vangelo, o che quelli che non predicano non sono sacerdoti, sia anatema”.
“Se qualcuno dirà che oltre al sacerdozio non vi sono nella Chiesa cattolica altri ordini, maggiori e minori, attraverso i quali, come per gradi si tenda al sacerdozio, sia anatema.”
Qualche secolo dopo, con il Concilio Vaticano II, secondo padre Tomás Rincón-Pérez, ci sarebbe stata una “svolta ecclesiologica”: “Il passaggio da un’ecclesiologia a predominanza gerarchica e stratificata, a un’ecclesiologia di comunione”, che “non dà posto a una classe di cristiani distinti, di rango superiore”.
Questa capitis diminutio della dignità del clero è stata accompagnata da un’accentuazione del carattere “sacramentale” della Chiesa, come “icona” della Santissima Trinità, a scapito della sua natura di società visibile e perfetta. Lo squilibrio è stato ulteriormente accentuato dall’idea che la Chiesa è soprattutto un’opera dello Spirito Santo, a scapito del fatto che fu fondata da Gesù Cristo, che la dotò di una gerarchia con poteri. Questa nuova ecclesiologia pneumatica insiste su due fatti: 1. che l’insieme dei doni dello Spirito Santo si distribuisce nell’insieme del Corpo di Cristo e 2. che tali carismi, in quanto non derivanti da un dono primordiale, sono complementari e interdipendenti. “Questa prospettiva della diversità dei carismi”, commentano il canonista belga Alphonse Borras e il teologo canadese Gilles Routhier, “ci permette di uscire dalla accoppiata gerarchia-laici per privilegiare l’accoppiata carismi-comunità”.
Fu nel contesto di un’escalation di questa ecclesiologia non stratificata e di comunione che il decreto conciliare Ad gentes, sull’attività missionaria della Chiesa, usò per la prima volta la parola “ministero” in un documento magisteriale per riferirsi indistintamente alle funzioni del clero e delle attività di collaborazione dei laici nell’apostolato.
Nel 1972, con la promulgazione del motu proprio Ministeria quaedam, sopprimendo gli ordini minori e sostituendoli con due nuovi ministeri liturgici riservati agli uomini – lettorato e accolitato – Paolo VI confermò questo abbandono dell’esclusività del termine “ministero” alle funzioni dei chierici. “Nell’antica disciplina, commenta padre Rincón-Pérez, questi ministeri erano riservati all’Ordo clericorum, tenendo presente che il concetto di chierico era più ampio di quello di ministro sacro [infatti, lo stato clericale iniziava con la tonsura, prima di qualsiasi ordinazione]. Restringendo il concetto di chierico – equivalente ora a ministro sacro [quindi, dal diaconato] – e affidando questi ministeri [lettore e accolito] ai laici, è ovvio che si produce una “declericalizzazione” di tali ministeri; ma allo stesso tempo un’aggiunta del laico all’organizzazione ecclesiastica”.
Paolo VI tornò sul tema nella costituzione apostolica Evangelii nuntiandi, testo prediletto di Francesco, dedicando un’intera sezione ai “diversi ministeri” dei laici”, in cui afferma che “la Chiesa riconosce il ruolo di ministeri non ordinati ma adatti ad assicurare speciali servizi della Chiesa stessa”.
Successivamente, il nuovo Codice di diritto canonico ha dato una base giuridica a questo statu quo postconciliare, sancendo il concetto di “ministeri istituiti” (chiamati anche “ministeri laicali”) nel suo canone 230, che Papa Bergoglio ha appena riformato per includere le donne.
Il Sinodo dei vescovi del 1987, dedicato all’apostolato dei laici, culminò con l’esortazione post-sinodale Christifideles laici. In essa papa Giovanni Paolo II riconobbe che nell’assemblea “non sono mancati (…) giudizi critici circa l’uso troppo indiscriminato del termine ‘ministero’, la confusione e talvolta il livellamento tra il sacerdozio comune e il sacerdozio ministeriale (…) e la tendenza alla ‘clericalizzazione’ dei fedeli laici e il rischio di creare di fatto una struttura ecclesiale di servizio parallela a quella fondata sul sacramento dell’Ordine”.
Dieci anni dopo, di fronte al fiorire disordinato e abusivo di tutti i tipi di “ministeri laicali”, la Santa Sede pubblicò una Istruzione su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti, firmata dai cardinali responsabili di otto dicasteri romani. Questa Istruzione ribadì l’insegnamento tradizionale che “l’esercizio da parte del ministro ordinato del munus docendi, sanctificandi et regendi costituisce la sostanza del ministero pastorale” e che “non è il compito a costituire il ministero, bensì l’ordinazione sacramentale”.
Questi avvertimenti furono di scarsa utilità; solo due anni dopo la Conferenza episcopale del Brasile pubblicò il documento Missione e ministeri dei laici cristiani, approvato nella sua annuale assemblea generale. Dopo aver diluito il sacro ministero in una lista crescente di ministeri “riconosciuti”, “affidati”, “istituiti” e, infine, “ordinati”, aggiungeva che “il ministero ordinato, in un’ecclesiologia di totalità e in una Chiesa tutta ministeriale, non ha il monopolio della ministerialità” e che “il suo carisma specifico è quello della presidenza della comunità e, quindi, dell’animazione, del coordinamento e – con l’indispensabile partecipazione attiva e adulta dell’intera comunità – del discernimento finale dei carismi”.
È difficile immaginare una formula più riduttiva dell’autorità di un pastore presso il gregge. Essa corrisponde al modello delle comunità di base della Teologia della liberazione, in cui, secondo Leonardo Boff, il potere è una “funzione della comunità e non di una persona”, e perciò rifiuta il monopolio del potere “che implica l’espropriazione a beneficio di un’élite”, affermando, al contrario, che “l’intera comunità è ministeriale, non solo alcuni suoi membri”. In queste comunità di base, il sacerdote gode solo del “ministero dell’unità”, cioè di “un carisma specifico per la funzione di essere principio di unità tra tutti i carismi”.
Non molto diverso è il linguaggio di papa Francesco nella sua lettera di accompagnamento al motu proprio Spiritus Domini, indirizzata al cardinal Ladaria. Secondo Bergoglio, in una migliore configurazione dei ministeri laicali e nella riscoperta del “senso della comunione” che caratterizza la Chiesa, “la feconda sinergia che nasce dalla reciproca ordinazione di sacerdozio ordinato e sacerdozio battesimale può trovare una migliore traduzione”. Una “reciprocità” che è chiamata a confluire nel servizio del mondo e che “allarga gli orizzonti della missione ecclesiale, impedendole di rinchiudersi in sterili logiche rivolte soprattutto a rivendicare spazi di potere e aiutandole a sperimentarsi come comunità spirituale che ‘cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena’ (GS, n. 40)”.
Questa nuova ecclesiologia comunitaria e antigerarchica è ciò che spiega, da un lato, l’insistenza di papa Francesco sulla “sinodalità” e, dall’altro, i suoi continui attacchi a ciò che chiama “clericalismo” del clero formato secondo la dottrina tradizionale, che altro non è che consapevolezza della propria dignità e superiorità ontologica nei confronti dei laici, per la conformità a Cristo sacerdote e per l’inserimento nella gerarchia della Chiesa.
L’apertura alle donne dei ministeri istituiti di lettore e accolito, codificati da Spiritus Domini, non è solo una risposta “alle sfide di ogni epoca, in obbedienza alla Rivelazione”, come intende Francesco nella sua lettera al cardinale Ladaria, ma implica un vero e proprio “superamento della dottrina precedente”, cioè una rottura con essa. Anche se lo negherà.
José Antonio Ureta
***
Aldo Maria Valli, Semel in anno
(Cronache dal futuro, Interviste pazze, Cattolici su Marte)
“Semel in anno licet insanire” dicevano gli antichi. “Una volta all’anno è lecito impazzire”. Quando le cose si mettono male, una risata può essere terapeutica. E può anche servire per dire la verità a fronte di un dispotismo soffocante. Vecchia storia: quando il conformismo dilaga, solo il giullare, attraverso la satira, riesce a proporre squarci di verità. E allora “insanire” può diventare addirittura dovere civile, se vogliamo usare parole grosse. Come diceva Victor Hugo, “è dall’ironia che comincia la libertà”. L’avvertenza è quella solita, nota ai frequentatori del mio blog Duc in altum: i contributi qui raccolti contengono ironia e sarcasmo. In caso di accertata allergia all’ironia e al sarcasmo, astenersi dalla lettura.
Semel in anno lo trovi qui, qui e qui