Sullo Spirito Santo, che induce Cristo nel deserto, e sulla nostra richiesta al Padre di non essere indotti nella tentazione
Cari amici di Duc in altum, le Scritture ci dicono che Gesù, quando si ritirò nel deserto, vi fu sospinto dallo Spirito Santo. Viene spontanea la domanda: perché questa iniziativa dello Spirito Santo? E quale il legame tra questa spinta e le tentazioni? Attorno a tali interrogativi ruota il contributo di Silvio Brachetta che qui vi propongo, sostenuto dalle argomentazioni di grandi santi e dottori della Chiesa.
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di Silvio Brachetta
I tre Vangeli sinottici sono concordi: Gesù Cristo si ritirò nel deserto per essere tentato dal diavolo e vi fu sospinto dallo Spirito Santo.
L’evangelista san Matteo scrive: «Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo». «Tunc Iesus ductus est [fu condotto] in desertum a Spiritu, ut tentaretur a Diabolo» (Mt 4, 1).
Analogamente san Marco parla di un’iniziativa dello Spirito Santo: «Subito dopo, lo Spirito lo sospinse nel deserto e vi rimase quaranta giorni, tentato da satana […]». «Et statim Spiritus expellit eum [lo sospinse] in desertum. Et erat in deserto quadraginta diebus et tentabatur a Satana […]» (Mc 1, 12-13).
Ma il più esplicito è san Luca, che usa – secondo il Dottore della Chiesa san Girolamo – il verbo latino agor che, tra i vari significati, ha pure quello di «indurre»: «Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto dove, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo». «Iesus autem plenus Spiritu Sancto regressus est ab Iordane et agebatur [fu indotto, da agor] in Spiritu in deserto» (Lc 4, 1).
Non c’è proprio spazio per l’equivoco. Ductus est, expellit eum, agebatur: sono tutti verbi che evocano il moto a luogo da parte di una Persona distinta da Gesù Cristo. È, dunque, del tutto conforme alla Rivelazione il sostenere che Gesù fu «indotto» nella tentazione di satana, non certo nella tentazione dello Spirito Santo.
Ma perché? I Vangeli non potevano limitarsi a dire che il Cristo espose se stesso alla tentazione, senza la partecipazione arcana dello Spirito Santo?
San Giovanni Crisostomo – Dottore della Chiesa – illumina il mistero: «Poiché Cristo operava e sopportava tutto per il nostro insegnamento, cominciò dopo il battesimo con l’abitare il deserto, e combatté contro il diavolo, affinché ciascun battezzato sostenga pazientemente dopo il battesimo le tentazioni maggiori, né si turbi come se ciò accadesse contro la sua speranza, ma sopportando ogni cosa rimanga trionfatore.
Infatti, anche se Dio permettesse che le tentazioni avvengano in molti altri modi, è anche affinché tu conosca che l’uomo tentato è costituito in un onore più grande: infatti il diavolo non si avvicina se non ha visto qualcuno costituito in un onore più grande; per questo si dice: “E subito lo Spirito lo spinse nel deserto”.
Per questo poi non mostra semplicemente che va nel deserto, ma spinto, in modo che tu intenda che ciò avviene secondo la parola della disposizione divina: e con ciò suggerisce anche che l’uomo non si ponga egli stesso nella tentazione, ma che sono vincitori coloro che sono come spinti dal di fuori nella tentazione» (Chrysostomus, “In Matth.”, hom. 13).
Secondo l’insegnamento del Crisostomo, sono dunque tre le motivazioni per cui l’episodio di Gesù nel deserto è accaduto nelle modalità descritte nei Vangeli.
Innanzi tutto, Cristo va nel deserto per dare l’esempio ai peccatori, chiamati a resistere alle tentazioni, al pentimento e al successivo trionfo sul peccato.
Quando l’uomo è tentato, poi, è «costituito in un onore più grande» solo se spinto nel deserto dallo Spirito Santo. È, quindi, per accrescere il merito (e dunque il premio) del peccatore pentito che Dio induce nella tentazione.
Se, infine, l’uomo pone se stesso nella tentazione, non esce vincitore. Sono infatti vincitori coloro i quali sono «come spinti dal di fuori nella tentazione».
Ma se tutto questo è vero – se cioè la tentazione satanica è permessa da Dio e se la vittoria sul nemico è meritoria – perché, nella preghiera, diciamo (dicevamo) «non ci indurre in tentazione», così come il Signore ci ha comandato?
Sant’Agostino, il Dottore d’Ippona, nella spiegazione del Padre nostro (Sermo 57), parla di due tipi di tentazioni, entrambe permesse da Dio. Il primo tipo di tentazione è la prova, che proviene direttamente da Dio. Ne parla il Deuteronomio, ad esempio: «Il Signore Dio vostro vi mette alla prova per sapere se lo amate» (Dt 13, 3). Ma ne parla anche Giobbe: «Non è forse una tentazione la vita dell’uomo sulla terra?» (Gb 7, 1).
Questo genere di prove, di tentazioni, è, in un certo senso, necessario. Probabilmente, sant’Antonio abate parla delle prove, quando afferma: «Nessuno, se non tentato, può entrare nel Regno dei Cieli; di fatto togli le tentazioni, e nessuno si salva» (Apophthegmata Patrum). Pertanto, siamo in un perenne combattimento contro le passioni disordinate, la concupiscenza della carne, le seduzioni mondane, i vizi, eccetera.
Sant’Agostino, però, indica anche un secondo gruppo di tentazioni: quelle che provengono direttamente dal demonio, e queste corrispondono alla «tentazione cattiva», da cui guardarsi e da cui fuggire. Il fatto che Gesù abbia affrontato questo tipo di tentazione nel deserto e ne sia uscito vittorioso non significa affatto che sia desiderabile per l’uomo. Di questa tentazione, appunto, si chiede al Padre: «non indurci» in essa.
Sant’Agostino specifica pure che non è facile uscire vittoriosi da una simile tentazione: «Con la tentazione, con cui uno è ingannato e sedotto, Dio non tenta nessuno; è certo però che per un suo disegno profondo e misterioso, alcuni Dio li abbandona». Il Dottore fa riferimento al passo evangelico in cui Gesù predice l’accecamento e l’abbandono ai danni degli empi, i quali «son diventati duri di orecchi», giungendo a «non intendere con il cuore e convertirsi», perché siano risanati (Mt 13, 15).
Su questa tentazione satanica, Gesù ritorna nell’orto del Getsemani: «Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione». «Vigilate et orate, ut non intretis in tentationem» (Mt 26, 41). Anche in questo caso c’è un moto a luogo: intrare, entrare. In ogni caso, Gesù auspica fortemente che i discepoli non entrino (o non cadano) in questo tipo di tentazione – che, dunque, è da evitare.
Al contrario, la tentazione che non può essere evitata (a causa del peccato originale e della natura umana ferita) – cioè la summenzionata prova – è descritta, tra l’altro, da san Paolo: «Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1Cor 10, 13). Nella tentazione umana, che è relativa alla debolezza della natura o alle cattive intenzioni del nostro prossimo, c’è un limite oltre il quale interviene la grazia di Dio, per non cadere.
Sant’Antonio da Padova specifica ancora meglio la questione: «La tentazione umana consiste nel giudicare le cose in modo diverso da come sono nella realtà, e quando in buona fede sbagliamo in qualche decisione» (Sermone della Domenica IX dopo Pentecoste, 13). È comunque sempre necessaria, primariamente, la risoluzione della volontà umana, che può cedere o meno alla tentazione, a causa del libero arbitrio.
Sempre sant’Antonio da Padova fa un’analisi ulteriore, dicendo che la tentazione può essere lenta o veloce, subdola o schietta (Sermone della Domenica XIV dopo Pentecoste, 16).
C’è la tentazione «che ci assalta all’improvviso» e quella «che si insinua nella mente a poco a poco, e colpisce l’animo con subdole suggestioni». Si può dunque crollare all’improvviso nel peccato, oppure franare a poco a poco, come un monte che si sgretola a causa delle infiltrazioni d’acqua.
Si cerchi soprattutto di fare attenzione al tipo di tentazione che incorse a Salomone, il quale «per l’eccessiva familiarità e pratica di donne, fu trascinato a costruire un tempio agli idoli, lui che prima aveva costruito il tempio a Dio».
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Cari amici di Duc in altum, vi ricordo che è disponibile il libro L’altro Vaticano II. Voci da un Concilio che non vuole finire (Chorabooks 2021), un modo alternativo e controcorrente di guardare al Concilio Vaticano II, tema imprescindibile se si vuole affrontare la questione della crisi della Chiesa e della fede stessa.
Con contributi di Enrico Maria Radaelli, padre Serafino Maria Lanzetta, padre Giovanni Cavalcoli, Fabio Scaffardi, Alessandro Martinetti, Roberto de Mattei, cardinale Joseph Zen Ze-kiun, Eric Sammons, monsignor Carlo Maria Viganò, monsignor Guido Pozzo, Giovanni Formicola, don Alberto Strumia, monsignor Athanasius Schneider, Aldo Maria Valli.