Si chiama Biosphere 2 ed è una mini-terra o, se preferite, una simil-terra, nata con la pretesa di ricreare in uno spazio limitato e chiuso (una struttura in acciaio e vetro di 204 mila metri cubi) i principali ecosistemi terrestri. Costruita tra il 1987 e il 1991, contiene una foresta tropicale, un oceano (con tanto di barriera corallina), una palude di mangrovie, un deserto, una savana e svariati ettari di terreno coltivabile. Ci sono poi laboratori e spazi destinati agli abitanti.
L’idea nasce nei ruggenti anni Sessanta del secolo scorso, tempo di hippies e di visioni fantasiose. Un ex scienziato e la sua compagna vivono in un eco-villaggio del New Mexico, ma vogliono qualcosa di più. Trovato un finanziatore, si mettono all’opera. Biosphere 2 (che si chiama così perché vuole replicare la biosfera 1, quella vera) diventa una specie di novella arca. Più di tremila specie di piante e animali sono trasferite all’interno. Convinti che la natura possa dar vita a un sistema che si regola da solo, gli ideatori pensano che l’esperienza potrà anche tornare utile quando gli umani saranno in grado di colonizzare altri pianeti.
La società che si occupa del progetto, la Space Biosphere Ventures, la sera prima dell’inaugurazione organizza una grande festa, e il 26 settembre 1991 sotto le volte di Biosphere 2, in pratica un enorme terrario, entrano gli otto abitanti: quattro uomini e quattro donne. I contatti esterni sono assicurati da linee telefoniche. Tutto è osservato da telecamere. Vietato ricevere aiuti da fuori.
Le speranze sono tante, ma ben presto i terronauti, detti anche biosferiani, incontrano alcune difficoltà. A causa della mancanza di luce solare i terreni producono meno del previsto. Una scienziata del gruppo si taglia accidentalmente un dito ed è costretta a chiamare i soccorsi per essere portata all’ospedale. Gli animali impollinatori si rifiutano di fare il loro dovere e, forse per la tristezza, muoiono. Al contrario, formiche e blatte, felici di aver trovato un posto ideale, si moltiplicano in modo impressionante. Presto i biosferiani incominciano a soffrire la fame e qualcuno, senza dare troppo nell’occhio, introduce alimenti dall’esterno.
Le difficoltà mettono a dura prova i nervi degli abitanti e il gruppo si spacca: la prima fazione ritiene che condurre gli esperimenti sia più importante che mantenere l’isolamento totale, la seconda è convinta che senza isolamento e autonomia l’esperienza non abbia senso. A un certo punto i livelli di ossigeno calano, l’anidride carbonica sale in modo preoccupante e un po’ d’aria viene pompata dall’esterno.
In un modo o nell’altro la missione viene portata a termine e il 26 settembre del 1993 gli otto biosferiani escono.
L’anno dopo parte una seconda missione. Nel frattempo, il proprietario della società organizzatrice è diventato Steve Bannon, colui che molti anni più tardi sarà il capo stratega della Casa Bianca durante i primi mesi dell’amministrazione Trump.
Anche questa volta le tensioni non mancano. I biosferiani della prima ora e quelli nuovi arrivano presto ai ferri corti. Due membri del vecchio progetto sono arrestati con l’accusa di aver manomesso e distrutto pezzi della struttura.
Mentre gli scarafaggi prosperano ed acari e altri parassiti banchettano con i miseri raccolti, i biosferiani si lanciano tazze. Spettacolo increscioso, ma anche istruttivo. Se ossigeno, energia e cibo sono stati prodotti in misura largamente insufficiente, i conflitti sociali all’interno di Biosphere 2 si sono invece manifestati in modo sovrabbondante, con una certa utilità per gli studiosi di psicologia e sociologia.
Due biosferiani della prima missione, nei rispettivi libri, hanno scritto che l’esperienza è servita, se non altro, per acquistare consapevolezza circa l’importanza della natura e del suo rispetto. Insomma, Biosphere 2 ha dimostrato quanto sia delicata e fragile la biosfera numero uno, quella reale, che ci permette di respirare e di vivere. Ma forse si poteva arrivare alla medesima conclusione a un prezzo un po’ meno elevato.
Dopo essere stata gestita per qualche tempo dalla Columbia University, Biosphere 2 è donata all’Università dell’Arizona, che la usa un po’ come laboratorio e un po’ come meta di gite.
Aperta ai turisti, Biosphere 2 adesso è sede di esperimenti, incontri, conferenze, con misure apposite anti-Covid. Lo scopo è “affrontare le grandi sfide della società relative alla gestione dell’acqua, dell’ambiente e dell’energia attraverso la progettazione di sperimentazioni su larga scala in ciascuno degli ecosistemi modello”.
Molti ritengono che, per quanto travagliata, l’esperienza di Biosphere 2 non sia stata un fallimento. Ha permesso infatti di acquisire conoscenze utili, specie ora che si torna a parlare di missioni spaziali con equipaggio per colonizzare la Luna e Marte. Non a caso, l’eredità di Biosphere 2 è stata raccolta da un nuovo progetto, chiamato Sam 2, i cui promotori affermano che, quando vivremo sulla Luna, su Marte o su una lontana luna di Giove, avremo bisogno di ecosistemi sostenibili e autonomi, perché non ci potranno essere soccorsi e salvataggi immediati.
In tutto il mondo sono una dozzina gli esperimenti del genere, e pare che i russi, con un progetto chiamato Bios 3, abbiano ottenuto ottimi risultati, fra l’altro utilizzando un certo tipo di alga per assorbire l’anidride carbonica e riciclare l’aria.
Nuovi scenari (ma anche nuove domande) si aprono, ora che la robotica permette di far lavorare le macchine al posto degli uomini, con maggiore efficienza e minore stress. Staremo a vedere.
Scrisse Galileo Galilei: “Nelle mie scoperte scientifiche ho appreso più col concorso della divina grazia che con i telescopi”. I costruttori delle nuove arche forse non se ne dovrebbero dimenticare.
A.M.V.