Perché il papa in Iraq ha ignorato il rischio Covid? I dubbi dell’inviato del “Washington Post”
L’inviato del Washington Post sul volo papale, per il viaggio di Francesco in Iraq, ha scritto un articolo controcorrente. Pur sottolineando l’importanza storica del viaggio, si è posto alcune domande riguardanti il coronavirus.
Sotto quasi ogni aspetto, scrive Chico Harlan, il viaggio di papa Francesco in Iraq è stato stupefacente. È andato in un paese che nessun papa aveva mai visitato prima, in un momento in cui pochi altri personaggi mondiali viaggiano. Ha pregato proprio nel luogo in cui, meno di sette anni fa, il leader dello Stato islamico aveva proclamato un califfato che avrebbe conquistato Roma. Le folle lo hanno adorato. Ma il punto è proprio questo: quasi ovunque andasse Francesco, c’erano folle. Grandi folle di persone non vaccinate, spalla a spalla. Alla messa all’aperto di Francesco a Erbil ha partecipato una folla quasi da Super Bowl, ma in uno stadio molto più piccolo di quello che ospita la finale del campionato americano di football, e pochissime persone indossavano la mascherina. La cosa più sorprendente è stata una messa al chiuso a Baghdad, in una chiesa gremita di gente che cantava, quasi senza ventilazione. Scrive Harlan: “Sembrava di stare in un reattore nucleare per la produzione di coronavirus”.
Prima del viaggio, ricorda l’inviato del Washington Post, il Vaticano ha offerto a tutti i giornalisti del seguito papale (più di settanta), due dosi del vaccino Pfizer-BioNTech. “All’inizio, mi è sembrato un regalo, da parte di uno dei pochissimi Stati che hanno un’abbondanza di vaccini. Ma quando il viaggio è iniziato, ho capito: eravamo stati vaccinati perché stavamo per abbandonare molte delle regole sulla pandemia”.
In Iraq, continua il giornalista, “abbiamo lavorato in mezzo alle folle, abbiamo viaggiato stretti in un pullmino, abbiano fatto sei viaggi in aereo in settantadue ore, abbiamo mangiato pasti preconfezionati in contenitori di plastica. In un hotel ci siamo accalcati per una cena a buffet, sono stato in ascensore con tre o quattro persone”. Ora dopo ora, la guardia si è abbassata e siamo tornati ai comportamenti pre-Covid: “Solo una cosa mi teneva tranquillo: il vaccino. Ecco perché i miei pensieri continuavano a tornare alle persone che non avevano la nostra stessa protezione, come i cattolici stipati per la messa a Baghdad. Mi chiedevo: chi in mezzo a queste folle si ammalerà entro un paio di giorni? Anche una messa può portare alla morte?”
Durante il viaggio di ritorno verso Roma Chico Harlan ha potuto chiedere direttamente al papa come avesse soppesato i rischi del viaggio e se fosse preoccupato per la salute di quelli che si erano radunati per vederlo. La risposta è stata che aveva pensato profondamente al viaggio, aveva pregato e preso la decisione conoscendo i rischi e nella convinzione che Dio si prenderà cura degli iracheni che potrebbero essere stati esposti al virus.
Harlan, tuttavia, non nasconde il suo disagio. Il papa, vaccinato, è andato, con i suoi collaboratori e i giornalisti (tutti vaccinati) in mezzo a folle a rischio. In Vaticano nulla di simile sarebbe mai stato consentito. Se si considera che in Iraq si fanno pochissimi tamponi e si registrano migliaia di nuovi casi al giorno, con la presenza di numerose varianti, mentre una campagna vaccinale è solo ai primi passi, ciò che ha provato il giornalista è comprensibile. Il papa che ha sempre raccomandato di rispettare le regole anti-Covid e si è vaccinato fra i primi dicendo che è un dovere etico, ha di fatto esposto al rischio moltissima gente.
Nell’ultimo giorno del viaggio, scrive Harlan, finché siamo rimasti a Bagdad era come se il coronavirus non esistesse più, tanto che abbiamo fatto la solita colazione a buffet senza distanziamento sociale. Poi però, una volta tornati a Roma, la realtà è tornata. Il giornalista racconta che sul taxi ha indossato una mascherina FFP2 e poi anziché tornare a casa, in famiglia, si è recato in un bad and breakfast per una quarantena volontaria. Con il pensiero sempre rivolto alle folle dell’Iraq.
Fonte: Washington Post