Libro / Legge omofobia, perché non va. La proposta Zan esaminata articolo per articolo
È uscito il libro di AA.VV. Legge omofobia, perché non va. La proposta Zan esaminata articolo per articolo (Cantagalli, 256 pagine, 19 euro), a cura di Alfredo Mantovano, con contributi di Domenico Airoma, Daniela Bianchini, Francesco Cavallo, Francesco Farri, Carmelo Leotta, Alfredo Mantovano, Roberto Respinti, Mauro Ronco, Angelo Salvi, Aldo Rocco Vitale.
L’opera è frutto della riflessione comune maturata nell’ambito del Centro Studi Rosario Livatino.
Per gentile concessione dell’editore, propongo la parte iniziale del primo capitolo.
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Una legge anti-omofobia: cui prodest?
- Il “testo Zan”
Il 4 novembre 2020 la Camera dei deputati ha approvato un articolato, di cui è stato relatore l’on. Alessandro Zan, risultante dall’unificazione di cinque proposte legge sul tema definibile, sinteticamente, del contrasto alla “omo-transfobia”: si tratta, per ordine di presentazione e per identificazione dal nome del primo firmatario, degli Atti Camera n. 107 (Boldrini), n. 569 (Zan), n. 868 (Scalfarotto), n. 2171 (Perantoni), n. 2255 (Bartolozzi). Trasmesso al Senato della Repubblica, il testo unificato – che d’ora in avanti sarà indicato come t.u. Zan per brevità – ha assunto il numero AS 2005.
Questa pubblicazione, completamente rivista e ampiamente accresciuta rispetto a Omofobi per legge? (Cantagalli, 2020), mantiene lo scopo di presentare con sguardo laico e non confessionale una tematica che ha assunto un rilievo centrale nel dibattito mediatico e politico del nostro Paese. In più fornisce una lettura non soltanto di quadro – come era per la precedente pubblicazione –, bensì per ciascuna singola disposizione del t.u. Zan, delle novità introdotte, incluse quelle inserite nel corso dell’esame a Montecitorio.
Aggiunge inoltre passaggi, non trattati in Omofobi per legge?, come per esempio le ricadute sul sistema scolastico, poiché allora l’attenzione era puntata quasi esclusivamente sulle norme di carattere penale.
- Omofobia: più che una parola, un’arma
L’uso della parola omofobia ha conosciuto almeno tre fasi. La prima è stata caratterizzata dalla lenta emersione del neologismo, adoperato in particolare per definire le iniziative di alcuni movimenti di avanguardia che, nel denunciare comportamenti violenti in pregiudizio di persone omosessuali, miravano a influire sul costume sessuale, socializzando le conquiste della rivoluzione culturale del Sessantotto. Ciò accade in un periodo storico in cui l’uso mediatico del lemma omofob* è circoscritto all’ambito della cronaca, ed è strettamente legato all’obiettivo di far venir meno la criminalizzazione e la riprovazione morale dell’omosessualità. Anche sui giornali italiani la presenza del neologismo era all’epoca piuttosto rara, e confinata nelle pagine del costume e dello spettacolo, rimandando ad avvenimenti accaduti pressoché esclusivamente all’estero.
Lo scenario cambia radicalmente ed il lemma omofob* incomincia a essere ospite abituale delle pagine di politica dei principali quotidiani italiani a partire dalla seconda metà degli anni 1990, allorché l’associazionismo gay, soprattutto grazie al suo leader più rappresentativo, l’on. Franco Grillini, compie la svolta istituzionale, mette piede nelle aule parlamentari – Grillini viene eletto alla Camera dei deputati nel 2001 – e si pone l’obiettivo di conseguire, più che la tutela dei “diritti” delle persone omosessuali, il riconoscimento pubblico delle unioni fra persone dello stesso sesso.
Snodo fondamentale di tale mutazione è l’alleanza strategica con quella sinistra, nata dalle ceneri del Partito comunista italiano, che viene assumendo sempre più i caratteri di un partito radicale di massa, espressione politica del relativismo culturale. La questione omosessuale va di pari passo con quella della rivendicazione dei cosiddetti nuovi diritti – la nuova frontiera mistica di una sinistra libertaria delusa dal fallimento marxista – e diviene centrale nella strategia di attacco alla famiglia e al matrimonio, gli ultimi ostacoli nel processo di compiuta secolarizzazione della società italiana.
In tale mutato contesto sociale e politico, “l’accusa di omofobia” diventa “uno strumento efficace di lotta politi[1]ca”, perde il legame originario con un significato evocativo di comportamenti violenti ed assume una connotazione essenzialmente relazionale: è omofobo chiunque si opponga all’affermazione dei nuovi diritti e al riconoscimento pubblico dei “matrimoni” same sex e delle famiglie arcobaleno.
Si passa così dalla punizione della condotta alla punizione dell’autore, da un comportamento sintomatico di una mentalità alla mentalità stessa; in definitiva, l’omofobia finisce per stigmatizzare un modo di essere, una condizione di ritenuta squalificante arretratezza culturale. La categoria degli omofobi, pertanto, diventa strutturalmente fluida, e ricomprende di volta in volta coloro che vengono individuati come nemici di quella che va acquisendo i contorni sempre più netti di una vera e propria rivoluzione antropologica; e non è un caso se quest’ultima, come ogni rivoluzione che si rispetti, non esita a divorare i suoi stessi figli.
Il riferimento allo scenario antropologico introduce a una terza fase dell’uso dell’accusa di omofobia, caratterizzata da un salto qualitativo di portata epocale. Le avvisaglie di un tale mutamento sono rinvenibili nelle parole pronunziate dall’on. Ivan Scalfarotto qualche anno fa, durante i lavori parlamentari che precedettero il naufragio della proposta di legge che recava il nome dello stesso parlamentare; in tale occasione, egli chiariva che la criminalizzazione dell’omofobia era “uno di quei casi in cui la norma penale ha un effetto simbolico e contribuisce a costruire la modernità di un paese e la cultura di una comunità”. Ciò spiega perché, nonostante le unioni civili siano state introdotte nel nostro ordinamento giuridico, si continui a insistere su una legge che punisca l’omofobia.
Si potrebbe, certo, pensare che la minaccia della sanzione penale sia comunque funzionale alle ulteriori battaglie che attendono il fronte LGBTI, dalle adozioni alla maternità surrogata; ma, per la verità, nemmeno gli stessi promotori ne fanno menzione: essi sono verosimilmente sicuri che tali “conquiste”, se non per legge, sono destinate ad arrivare, prima o poi, per sentenza. Nel frattempo, la questione omosessuale lascia il campo all’ideologia gender, e nulla ha più a che vedere con l’esigenza di rimuovere presunte discriminazioni in pregiudizio di omosessuali e transessuali.
La lotta dei militanti gender va, infatti, ben al di là dei “diritti” delle minoranze sessuali: l’obiettivo è quello, una volta de-costruita la sessualità, di ri-costruirla secondo il desiderio di ciascuno, disincarnandola del tutto dal corpo, e facendone parte integrante di una concezione dell’uomo definitivamente sganciata da qualsiasi ordine oggettivo. L’identità di genere, come bene-interesse da presidiare con la sanzione penale, è parte di un disegno antropologico più ampio, che ruota attorno a una nuova norma fondamentale: l’auto-determinazione assoluta, il nuovo ubi consistam della dignità.