Dentro il Leviatano. Il nuovo dispotismo colpisce così
Cari amici di Duc in altum, vi propongo il testo dell’intervento che ho tenuto domenica 30 maggio 2021 al Simposio internazionale di Venezia, primo Festival di filosofia Antonio Livi Un grande risveglio per l’umanità? L’era post Covid: il nostro futuro tra scienza e trascendenza.
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di Aldo Maria Valli
La prima di tutte le forze che governano il mondo è la menzogna.
Jean-Françcois Revel, La conoscenza inutile
Perché gli uomini approvano il potere? In alcuni casi per fiducia, in altri per timore, talvolta per speranza o per disperazione. Comunque, cercano sempre protezione e si aspettano questa protezione dal potere.
Carl Schmitt, Dialogo sul potere
Difficile conquistarla, ma molto facile perderla. Parlo della libertà, questo bene che a parole tutti difendiamo, ma molto spesso calpestiamo.
Da quando siamo alle prese con il Covid, mi è venuto spontaneo riflettere sulla libertà e sulla sua fragilità. Perché la libertà è come un oggetto di finissima porcellana. Se non lo sappiamo maneggiare, può andare in mille pezzi da un momento all’altro.
È nato così il mio saggio Virus e Leviatano (Liberilibri, 2020), nel quale affronto da una prospettiva di filosofia politica la situazione nella quale ci siamo trovati immersi a partire dall’11 marzo 2020, ovvero da quando l’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato lo stato di pandemia.
Per sgombrare il campo da qualsiasi accusa di negazionismo o di far parte di chissà quali compagini di persone strane, voglio partire da un’analisi che è stata fatta non da pazzi complottisti ma dal Censis, l’istituto che ogni anno pubblica un rapporto sulla situazione sociale dell’Italia. Lo ha puntualmente pubblicato anche alla fine del 2020, e lo ha intitolato Meglio sudditi che morti. Nel rapporto si descrive un’Italia che, a causa del virus, è terrorizzata a tal punto che una netta maggioranza, anzi la stragrande maggioranza degli italiani, è disposta non solo a rinunciare alle libertà personali in nome della tutela della salute collettiva, ma anche a lasciare al governo la facoltà di decidere circa la limitazione o la soppressione di tali libertà, con possibilità di intervento in ogni ambito della vita: quando e come uscire di casa, chi si può incontrare, fino a che punto ci si può muovere, eccetera. Inoltre, un altro dato che viene alla luce è che una netta maggioranza delle persone interpellate è disposta a rinunciare ai propri diritti civili, addirittura alla libertà d’opinione, di organizzarsi, di iscriversi a sindacati o associazioni, a causa della paura del virus, ed è proprio così che si arriva alla dicotomia ultimativa: meglio sudditi che morti, meglio vite non sovrane, volontariamente sottomesse al buon Leviatano, espressione usata dal Censis, lo ricordo, nel dicembre del 2020, mentre io ho scritto il mio saggio a settembre, quindi credo che nessuno mi possa accusare di aver preso ispirazione dal Censis, semmai il contrario.
Tutto ciò per dirvi che ormai credo siano molte le persone che sono giunte a un certo tipo di conclusione rispetto a tutto quello che abbiamo vissuto ne corso del 2020 e che ancora sotto molti aspetti stiamo vivendo. Siamo di fronte a un utilizzo politico e sociale della situazione determinata dalla diffusione del virus. Qualcuno ha parlato del più grande esperimento di ingegneria sociale che sia mai avvenuto nella storia. Io ho provato a ragionare in termini di filosofia politica e sono giunto a dare alcune definizioni.
Sono partito da un dato che è incontrovertibile: con questa pandemia sono state sospese le abituali procedure costituzionali, e da un giorno all’altro abbiamo smesso di essere una repubblica parlamentare. Gli strumenti che abbiamo imparato a conoscere fin troppo bene, i decreti della presidenza del consiglio, i dpcm, hanno assunto una centralità e una preminenza assolute. È come se tutti, il mondo della politica ma anche noi cittadini, a fronte di uno stress test avessimo proclamato che i diritti costituzionali di libertà e il parlamentarismo stesso sono lussi che ci possiamo permettere in tempi “normali” ma non in tempi “straordinari”.
Mentre osservavo la disinvoltura con cui il parlamentarismo veniva messo da parte, mi tornavano alla mente le parole di Lenin: “Noi non possiamo concepire una democrazia, sia pure una democrazia proletaria, senza istituzioni rappresentative, ma possiamo e dobbiamo concepirla senza parlamentarismo” (Stato e rivoluzione).
E poiché accanto alla disinvoltura del governo nella sospensione dei diritti di libertà abbiamo visto la naturalezza dell’opinione pubblica nell’accettare tutto questo, ecco che un nemico della libertà può averne tratto un insegnamento molto chiaro. È stato dimostrato che, agendo su determinate leve connesse alla sicurezza sanitaria, è facilissimo sospendere le garanzie costituzionali imprimendo una svolta in senso autoritario. Dunque, la domanda sorge spontanea: chi ci dice che un domani, di nuovo, un’emergenza di tipo sanitario non potrà essere utilizzata per sospendere i diritti e ridurre ulteriormente gli spazi delle nostre libertà? Se questa situazione d’emergenza si dilatasse, fino a essere presentata e percepita come la normalità – e questo è proprio ciò che stiamo sperimentando – che cosa succederebbe? Chi può assicurarci che un pericolo non possa essere creato di proposito? Come non immaginare che lo stato d’emergenza possa essere istituzionalizzato? Sono domande inevitabili di fronte a quello che abbiamo vissuto e stiamo vivendo. Inevitabili se si ha a cuore la libertà e si è coscienti del suo valore.
Nel libro io non esito a parlare apertamente di dispotismo. Quella che abbiamo vissuto e che per molti aspetti stiamo ancora vivendo è in effetti una forma di dispotismo perché il governo ha assunto una centralità assoluta, senza precedenti. L’esecutivo, attraverso i dpcm, si è messo a legiferare senza alcun riguardo per la separazione dei poteri, cardine dello Stato di diritto e della democrazia liberale.
Che tipo di dispotismo è questo? Lo definisco un dispotismo condiviso, perché mass media e opinione pubblica l’hanno giustificato, assunto e fatto proprio. Ma è anche dispotismo statalista, perché ogni facoltà decisionale è demandata allo Stato. L’iniziativa privata e dei corpi intermedi non è presa in considerazione e neppure viene rivendicata. Lo Stato, percepito come l’unica istituzione in grado di affrontare la situazione, diventa istituzione salvifica.
È poi un dispotismo terapeutico, perché il politico ha preso di fatto le sembianze del medico, il cittadino è diventato un paziente e la nazione intera un grande ospedale. Da qui chiaramente un rapporto asimmetrico che favorisce il dispotismo stesso: non più una relazione tra politico e cittadino, tra rappresentante e rappresentato, ma un rapporto medico-paziente, che mette il paziente nelle condizioni di non poter discutere ciò che il medico decide e indica.
Su tutto domina il dogmatismo scientista, con la preminenza della mitica figura del comitato tecnico-scientifico, questa struttura che agisce dietro le quinte muovendo i fili di tutta l’organizzazione. Ma spacciare la tecnoscienza come espressione di verità assoluta significa ignorare che la scienza ben raramente ha risposte certe, tantomeno la scienza medica. La scienza può studiare, mettere a confronto, incrociare dati, ma non ha la pretesa di fornire indicazioni e risposte univoche, specie se è sollecitata a farlo in tempi brevi. Tutto ciò è semplicemente una grande illusione.
Ecco, dunque, perché parlo di dispotismo statalista, condiviso e terapeutico, un dispotismo che rivela però, a mio giudizio, tante debolezze. La debolezza della politica, che si è messa nelle mani della tecnoscienza riconoscendosi incapace di affrontare i problemi. Debolezza dell’esecutivo stesso, che accentrando tutto ha manifestato la paura del confronto democratico. Debolezza dello Stato, che ha risposto con la solita farraginosità e i soliti ritardi, lasciandosi guidare da organismi sovranazionali, come nel caso dell’Organizzazione mondiale della sanità. Debolezza della cosiddetta società civile, che è rimasta del tutto passiva. E – lo dico da battezzato, da credente – debolezza della gerarchia della Chiesa cattolica, che si è prontamente allineata al dispotismo, alla narrazione dominante, e non è stata in grado di pronunciare una parola alternativa e di mettere la questione su un piano diverso da quello imposto dalla narrativa dominante. Parlerei, infine, di una debolezza antropologica dell’uomo contemporaneo, che manifestando la pretesa infantile di essere messo a riparo da ogni tipo di pericolo è arrivato a supplicare il potere (“Dammi l’immunità, subito!”), senza prendere minimamente in considerazione l’idea di un confronto virile con il male e la sofferenza.
In tutto questo è stato sicuramente decisivo il ruolo dell’informazione. Il dispotismo per sussistere e affermarsi ha bisogno del sostegno dei mass media e della rete, strumenti indispensabili per alimentare la narrativa adeguata, fondata sulla paura. Da sempre il potere utilizza la salute e la sicurezza per sopprimere le libertà, questa non è una novità. La novità sta nel fatto che ciò che in passato era stato in gran parte solo teorizzato oggi sta venendo applicato, nelle nostre vite e nei nostri comportamenti di tutti i giorni.
Accennavo poco fa alle domande che mi sono venute spontanee fin dall’inizio del primo lockdown. Domande sostenute in particolare dal ricordo delle lezioni del professor Gianfranco Miglio, che ebbi come docente di Scienza della politica e Storia delle dottrine politiche nella facoltà di Scienze politiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nei primi anni Ottanta del secolo scorso. Fu proprio Miglio, curatore del fondamentale libro Le categorie del «politico». Saggi di teoria politica di Carl Schmitt, edito da Il Mulino ne 1972, a sottolineare l’importanza del pensiero di Schmitt circa lo stato d’eccezione: “L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto”. È nel caso limite, non descritto dall’ordinamento vigente e abituale, che la natura del diritto, e dunque quella del potere, si svela nella sua essenza.
Sovrano, per Schmitt, è colui che decide quando sussiste lo stato di eccezione e “cosa si debba fare per superarlo” (Teologia politica). Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione e nello stato di eccezione. Ma, stando così le cose, necessaria diventa la riflessione su come e quando lo stato d’eccezione diventa regola.
Ebbene, per la prima volta il mondo intero, nel caso della pandemia da Covid-19, è diventato un laboratorio nel quale verificare questa tesi.
Ritengo sia utile ricordare poi il senso di colpa continuamente alimentato dalla narrativa dominante. Accanto al terrore, il senso di colpa è decisivo. Ognuno di noi, condizionato da una narrativa adeguata, è portato a colpevolizzarsi e quindi a limitarsi, anzi a gettarsi nelle braccia del tiranno, addirittura ringraziandolo. Il meccanismo è stato studiato da eminenti studiosi, filosofi, politologi. La novità è che lo stiamo sperimentando con tempi di applicazione velocissimi.
Un’altra osservazione mi sembra doverosa. Noi diciamo sempre che viviamo in un mondo profondamente secolarizzato, che non abbiamo più bisogno di una trascendenza, di un pensiero religioso, però abbiamo visto che nel momento della difficoltà, dell’emergenza, quelli che sono venuti alla luce sono tutti modelli, in fin dei conti, di stampo religioso. Abbiamo una sacra trinità, che è formata da Scienza-Salute-Sicurezza. Abbiamo il peccato, che consiste nel non collaborare, nel pensare con la propria testa, nel porre domande scomode. Abbiamo il castigo per il diverso, il non allineato, castigo che consiste in una forma di scomunica, cioè nell’essere posto fuori dalla comunità, in quanto irresponsabile e indegno. Abbiamo le sacre scritture, che sono i mass media, la grande stampa, con la loro narrativa omologata e omologante, alimentata quotidianamente. Abbiamo l’impellente richiesta di convertirci alla pretesa scientista, la nuova religione. Abbiamo l’identificazione del credere alla narrativa dominante con la salvezza. Abbiamo i bacchettoni che giudicano tutto e tutti ritenendosi detentori della verità. Abbiamo l’inquisizione, che scomunica i reprobi e censura le fonti considerate non allineate. Abbiamo l’indice dei testi proibiti. Abbiamo la casta sacerdotale dei virologi e, in generale, degli esperti continuamente sollecitatati dai mass media come oracoli. E infine abbiamo l’etichetta di miscredenti appiccicata a tutti coloro che, poco disposti a lasciarsi condizionare, osano porre domande scomode.
Quindi vedete la stranezza di questo mondo, che si dice secolarizzato ma nel momento della difficoltà mette in atto tutti i comportamenti e gli atteggiamenti tipici del fideismo.
Io credo che tutto ciò che noi stiamo vivendo faccia parte non tanto di un complotto (sebbene evidentemente ci sia una somma di interessi convergenti) quanto di una grande crisi, che ormai va avanti da tempo e non è stata determinata da questa pandemia ma con la pandemia è venuta ancora di più allo scoperto: la crisi della ragione umana, una crisi che ci porta a cadere appunto in nuove forme di fideismo cieco. La conoscenza e la capacità di porre domande e alimentare lo spirito critico si scontrano con un acuto bisogno di credere (“A qualcosa devo pur credere” mi ha detto una persona con la quale ho avuto modo di scambiare occasionalmente alcune opinioni sulla pressante sollecitazione a vaccinarsi). E proprio questo disperato bisogno di credere si trasforma in “un tenace rancore verso gli gnostici” come scrive Jean-François Revel (La conoscenza inutile): ecco così la feroce intolleranza verso il non credente, verso colui che rivendica il diritto all’autonomia, alla critica nei confronti del pensiero dominante.
A volte dico che siamo ormai narcotizzati. Tale è il condizionamento per cui la sola idea di poter sviluppare un’idea personale, un pensiero autonomo, qualcosa che vada controcorrente e aldilà del conformismo assoluto è ritenuta blasfema (ed eccoci di nuovo alle prese con categorie religiose).
Infine, segnalo che tutto ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi ha una portata potentemente sovversiva. Pensiamo soltanto al rapporto che si è venuto a creare tra lo Stato e la persona. Abbiamo rapidamente dimenticato che lo Stato riceve il potere dagli individui, dalle persone, dal popolo. Non è il popolo, non è la persona, non è l’individuo che ottiene concessioni dallo Stato, è il contrario! Abbiamo rapidamente dimenticato che in una democrazia liberale è consentito tutto tranne ciò che è espressamente vietato, mentre oggi siamo ormai convinti che sia vietato tutto tranne ciò che è espressamente consentito. Il disorientamento è tale che ormai il cittadino ha sempre l’impressione di sbagliare, di essere in fallo. La prima domanda che viene in mente è: ma questa cosa la potrò fare? Il rapporto tra Stato e cittadino è stato ribaltato e questo ribaltamento è già realtà quotidiana. Non stiamo parlando di qualcosa che verrà o di un rischio, parliamo di realtà dei nostri giorni. Ormai non viviamo più in uno Stato di diritto, ma in uno Stato autoritario. So di usare un’espressione pesante, ma quando, appunto, la domanda che quotidianamente ci si pone non riguarda le proprie opportunità ma i limiti della libertà di movimento e di azione significa che siamo di fatto in un dispotismo. La democrazia liberale non c’è più.
Nel mio libro cito Alexis de Tocqueville, che nel suo La democrazia in America, a metà dell’Ottocento, fotografa il potere amministrativo visto all’opera al di là dell’oceano definendolo “assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite”. Come non pensare ai nostrani dpcm, così minuziosi nel voler entrare in tutti gli elementi delle nostre esistenze, perfino nelle nostre case, nelle nostre relazioni familiari e personali: un potere assoluto, particolareggiato, che si manifesta come previdente e mite, perché dice di essere dalla nostra parte, di fare tutto per il nostro bene, ma di fatto che cosa fa? Ci toglie la fatica di dover pensare, e anche queste sono espressioni di Alexis de Tocqueville. È un potere che ci riduce a bambini, incoscienti, incapaci di una reazione personale. Tocqueville parla di piccole regole, complicate, minuziose e uniformi. Come tali, non sembrano costituire un pericolo per la democrazia liberale, ma inesorabilmente regolano, dirigono e quindi infiacchiscono. L’individuo così diventa massa informe, desiderosa soltanto di lasciarsi guidare. Questo tipo di Stato non è il classico tiranno che fa la voce grossa e minaccia. No, è paternalista, è gentile e, dice di stare dalla tua parte. Direi che è addirittura materno, perché è come una mamma previdente, piena di raccomandazioni: non fare questo, non fare quello, non toccare, non correre, mettiti la maglia pesante, non sudare, ma di fatto così impedisce la crescita e quindi comprime e, snerva, riducendo infine la nazione a non essere altro che una “mandria di animali timidi” (sono ancora parole di Tocqueville).
Ecco il quadro nel quale viviamo ormai quotidianamente. Ridotti a una mandria di animali timidi, compressi, snervati, stressati, incapaci di una reazione, non sappiamo più che cosa possiamo fare e cosa non possiamo fare: tutto è concessione dello Stato. Abbiamo dimenticato che le nostre libertà sono diritti fondamentali, non sono concessioni! Nella democrazia liberale non ci sono concessioni del despota di turno: ci sono i diritti del cittadino. Eppure, il ribaltamento è avvenuto. Siamo già snervati, siamo già compressi, siamo già stati ridotti a mandria.
Desidero concludere con le parole di Etienne de la Boétie: “Di una sola cosa, non so come mai, la natura non trasmette agli uomini il desiderio: la libertà, un bene così grande che una volta perduto sopravvengono tutti i mali possibili, e anche i beni che restano perdono del tutto il loro gusto e sapore, corrotti dalla servitù” (Discorso sulla servitù volontaria).
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Cari amici di Duc in altum, è disponibile il mio nuovo libro: La trave e la pagliuzza. Essere cattolici “hic et nunc” (Chorabooks).
Uno sguardo sulla situazione della Chiesa cattolica e della fede. Senza evitare gli aspetti più controversi e tenendo conto dell’orizzonte dei nostri giorni, segnato dalla vicenda del Covid. Un diario di viaggio in una realtà caratterizzata da profonde divisioni, ma con la volontà di costruire, non di distruggere. E sapendo che il processo di conversione riguarda tutti, a partire da se stessi.
Il volume prende in esame questioni disparate (dal Concilio Vaticano II al pontificato di Francesco, dalla vita spirituale in regime di lockdown alle vicende vaticane, dal great reset alle questioni bioetiche) ma con un filo conduttore: l’amore per la Chiesa e la Tradizione, unito a una denuncia chiara sia delle derive moderniste sia delle nuove forme di dispotismo che limitano o negano le libertà fondamentali.
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