di don Marco Begato
Breaking news dal mondo liturgico suggeriscono essere prossimo alla pubblicazione un documento che abolirebbe, o almeno ridimensionerebbe, la portata del motu proprio Summorum Pontificum.
Tale voce ha destato più di una apprensione, soprattutto in quelle diocesi (e quindi nella maggioranza delle diocesi italiane) dove la difesa della celebrazione Vetus Ordo trova tutela solo nel Summorum Pontificum e non certo nel dialogo coi Pastori.
In difesa dello status quo hanno parlato, tra gli altri, anche due principi della Chiesa, nelle persone del cardinale Müller e del cardinale Zen.
Il mio commento odierno porta l’attenzione sul problema dell’autorità.
La mia tesi è che una mossa a danno del Summorum Pontificum – specie se intentata con Benedetto XVI ancora in vita – sarebbe un colpo basso alla Liturgia, ma sarebbe soprattutto un colpo traumatico per l’autorità.
La domanda che mi pongo è quale valore andrebbe riconosciuto a un documento che nel giro di pochi lustri venisse girato e rigirato come un calzino. Davvero scarso, direi. Ma il valore del documento nel nostro caso dice anche del valore del suo autore, e poiché un motu proprio è un intervento eminente e autonomo del Sommo Pontefice, dice del valore delle dichiarazioni pontificie e del loro rapporto con l’episcopato (per esempio con la disponibilità di un episcopato di obbedire a un motu proprio). E dunque davanti a una svalutazione di un motu proprio non si correrebbe il rischio di togliere credito agli interventi del Papa in quanto tali? Non si rischierebbe di generare l’impressione che gli interventi diretti del Papa siano altamente dubitabili, validi al massimo pochi lustri, buoni da esser strattonati?
È in questo senso che toccare il Summorum Pontificum ai miei occhi significherebbe toccare la credibilità stessa del Pontefice e delle gerarchie, toccarne l’autorevolezza. E questo, si badi bene, lo affermo non per dar voce a un personale sentimento psicologico di fiducia tradita, ma per segnalare un radicale e oggettivo stato di confusione che ipso facto l’Anti-Summorum attribuirebbe alle cariche più alte.
Il ragionamento è tanto semplice quanto disarmante: se i vertici non hanno chiaro cosa vogliano fare e perché, se agiscono per equilibri curiali cangianti o per mode sociali e non secondo presupposti teologici definiti e stabili, noi perché dovremmo obbedire loro? Intendo dire, sulla base di quali presupposti dovremmo obbedirgli? A quali condizioni? Meglio ancora, noi a cosa dovremmo obbedire? Allo scritto mutevole? All’intenzione trapelata per mezzo dei giornali? Alle dichiarazioni dei pastori in televisione? Al Papa 1 o al Papa 2? Al vescovo che segue la lettera o a quello dello spirito? Alla moda o alla convenienza? Al primo o al secondo lustro?
Ripeto, la mia non è una reazione psicologica, ma una seria difficoltà deontologica. Io sono tenuto a obbedire a chi sicuramente mi mostra la volontà di Dio, ma una comunità ecclesiale che si presenta confusa, che muta di continuo le proprie istanze, che fornisce sempre meno spiegazioni teologiche, che tendenzialmente non risponde o elude i dubbi sollevati, che nel millennio delle libertà e nella Chiesa post-conciliare finalmente libera da legalismi spinge verso una obbedienza intransigente, una simile realtà in cosa può dirsi credibile e affidabile? In cosa va creduta e seguita? Per quanto tempo? Con che criteri? Quanto va presa sul serio? Quanto invece posso interpretarla e rileggerla a piacimento? Chi lo stabilisce?
Sono domande davvero aperte, cui già oggi non so rispondere. Quando il Summorum sarà stato castigato, una risposta definitiva diverrà per me ancora più difficile, perché dare credibilità alle autorità sarà per definizione un azzardo, una roulette, un gioco. Peraltro sempre meno divertente e sempre più rischioso.