Perché le la Chiesa non parla più del Cristo medico, anche dei corpi?
di Aurelio Porfiri
Dev’essere stato emozionante vedere quella piccola pietra triangolare di calcare scoperta nella primavera del 1919, a Timgad, in Algeria. Sopra c’era un’iscrizione databile fra il quarto e il quinto secolo dell’era cristiana: «Sub[veni], Cristé, tu solus medicus, sanctis et penitentibus ma[t]re(m) manib[us] et pedibus de[fendentibus]». Possiamo tradurla così: «Vieni in nostro aiuto, o Cristo, unico dottore, vieni in aiuto dei santi e dei penitenti, che difendono con ogni mezzo la loro madre Chiesa» (si veda in proposito Paul Monceaux, Une invocation au “Christus medicus” sur une pierre de Timgad. In: Comptes rendus des séances de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, 64ᵉ année, n. 2, 1920, pp. 75-83).
Già per i primi cristiani era chiara questa idea del Cristo come medico, non solo delle anime, ma anche dei corpi. Paul Monceaux, nell’articolo citato sopra, nota come il tema del Christus medicus sia presente in modo copioso nella predicazione di sant’Agostino. Nel Discorso 175, per esempio, si parla di Gesù come del «grande medico» venuto dal cielo. Per curare le anime, certamente, ma non solo. Perfino quando era perseguitato e messo a morte, dice Agostino, Gesù continuava a essere medico e a curare. E poi osserva: «Se da un così eccellente medico è stato guarito un malato senza speranza, perché io non applicherò quelle mani alle mie ferite? Non mi affretterò ad accostarmi a quelle mani?».
Del resto, questo pensiero lo troviamo ben espresso dal grande maestro di sant’Agostino, sant’Ambrogio, che dice: «Cristo è tutto per noi: se vuoi curare una ferita, egli è medico; se sei riarso dalla febbre, è fontana; se sei oppresso dall’iniquità, è giustizia; se hai bisogno di aiuto, è forza; se temi la morte, è vita; se desideri il cielo, è via; se fuggi le tenebre, è luce; se cerchi cibo, è alimento».
Proprio su questo testo, dietro richiesta di Paolo VI, il maestro e cardinale Domenico Bartolucci ha scritto un bellissimo mottetto per soprano solista e coro a voci miste.
Ma il tema del Cristo medico, così vivo nella patristica, è oggi abbandonato dalla Chiesa. La religione è spogliata della sua dimensione curativa e la medicina è innalzata a vera e propria religione.
San Giuseppe Moscati (1880-1927), che era medico, chiamava Gesù «primo medico» e avvertiva: «Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo, in alcuni periodi; e solo pochissimi uomini son passati alla storia per la scienza; ma tutti potranno rimanere imperituri, simbolo dell’eternità della vita, in cui la morte non è che una tappa, una metamorfosi per un più alto ascenso, se si dedicheranno al bene».
Certo, è difficile trovare oggi medici che esprimano tali intendimenti. Lo stesso Moscati diceva: «E poi noi altri medici che cosa possiamo? Ben poco! E perciò, non potendo soccorrere il corpo, soccorriamo l’anima e, di fronte ai casi disgraziati, ricordiamo i doveri dello spirito che ci provengono dalla fede dei nostri padri!». Sarebbe bello se tutti i medici si rendessero conto che stanno soccorrendo un corpo con un’anima. Forse una frase di un’altra santa, madre Teresa di Calcutta, potrebbe farli riflettere: «Non dimenticherò mai il giorno in cui, camminando per una strada di Londra, vidi un uomo seduto, che sembrava terribilmente solo. Andai verso di lui, gli presi la mano e la strinsi. Lui allora esclamò: “Dopo tanto tempo, sento finalmente il calore di una mano umana”. Il suo viso s’illuminò. Sentiva che c’era qualcuno che teneva a lui. Capii che un’azione così piccola poteva dare tanta gioia».
Il problema, dicevo, non è solo dalla parte dei medici. Anche gli uomini di Chiesa possono avere, e molto spesso hanno, una visione meccanicistica della persona. Magari sono gli stessi uomini di Chiesa che parlano tanto dell’importanza del rapporto con le altre religioni. E, così facendo, non si accorgono di essere contraddittori, perché proprio le altre religioni, più del cristianesimo, hanno mantenuto una visione più olistica della persona, vista come un tutto e non come un essere a compartimenti stagni.
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